C’è ..." />
Fausto Rossi
C’è un tratto comune alle otto canzoni di Becoming Visible? Forse ne
hai composte alcune in tempi recenti, ed altre le tenevi nel cassetto da un
po’? Avverto un atteggiamento di distacco e un altro di sofferta
partecipazione, rispetto agli affanni e ai dolori del mondo. Le canzoni sono tutte nuove,
scritte nel giro di un mese, un mese e mezzo. Forse più che di partecipazione
parlerei di osservazione. Sono
trascorsi 13 anni dalla mia precedente uscita discografica, anche se nel
frattempo ho continuato a scrivere e a suonare. Fra l’altro, Exit era un disco piuttosto duro, io ero
molto coinvolto dalle cose che mi circondavano, dal “mondo”. Poi “il tempo
passa”, e non sentivo il bisogno di continuare esattamente su quella strada.
C’è altro materiale, che non è entrato in questo disco perché mi sembrava poco
adatto ad una riapparizione dopo tanto tempo. Volevo che questa riapparizione
fosse facile, senza effetti speciali, discreta. Quelli che cominciano a diventare visibili di me sono in fondo i
sentimenti miei, personali. E’ senz’altro un lavoro più intimo di Exit. C’è anche il fatto che non credo che questo
mondo, questo sistema di cose, questa macchina
possa assolutamente essere fermata: almeno al momento, poi tutto ha una fine,
ma la macchina ha preso una strada e si muove in quella direzione, sempre più
precisa, sempre più sicura di sé. Non riesco ad immaginare cosa possa
scardinarla, o risistemare questo mondo. Piuttosto che sentirmi così coinvolto,
mi sono ritrovato nei panni dell’osservatore. Non che io sia meno incazzato,
meno disposto ad attaccare questa macchina. Cercarne il cuore è un po’ come se fosse il mio mestiere. Non
lo troverò mai, ma non importa, é ciò che m’interessa fare. Sia nei testi sia musicalmente, svilupperò un discorso nell’arco di tre dischi. Anche il secondo e il terzo - se le cose vanno per il verso giusto –
dovrebbero essere pubblicati entro la fine dell’anno. So già dove arriverò col
terzo album, sia nel suono che nei contenuti. Non ho abbandonato il campo. Ho
abbandonato il vortice, ma non smetto di osservare, e non smetto di provare
rancore verso questa macchina. Ho la convinzione, che probabilmente hanno in
tanti, che questa vita sia un semplice sogno. Ma ammesso che sia così come
dico, a me non fa piacere che mi abbiano trasformato questo sogno in un
disastro, in un incubo, e non posso dimenticare questo disastro che si perpetua
da migliaia di anni. Nei prossimi due dischi
sarò sempre molto attento, e forse anche più duro di quanto non sia
stato in Exit. Forse più chiaro: nel
momento in cui sei molto coinvolto nelle cose il campo di battaglia è un
grandissimo caos, non sai chi sta colpendo, da dove, quando, non capisci chi
devi colpire. Invece, ora certi temi potrebbero diventare ancora più chiari,
ancora più duri, nonostante un inizio apparentemente pacifico. Musicalmente i prossimi due dischi saranno ancora sulla linea asciutta
e essenziale, quasi minima, di Becoming Visible? No, posso dirti che il terzo sarà
senz’altro con una formazione rock classica: batteria, basso, chitarre, forse
delle tastiere se serviranno. Con L’Erba
(1995) per quello che riguarda il genere ho fatto una svolta decisiva: ho
ritrovato la mia strada, quella che probabilmente avevo scelto da sempre,
ancora prima di entrare nella discografia, che è la musica rock, in certi casi
un po’ pop. Ultimamente sto tirando un
po’ sul blues, mi piace indugiare su quelle atmosfere, già su Exit qualche elemento blues era
presente. E’ probabile che nei prossimi dischi ci sarà ancora qualche pezzo con
me da solo alla chitarra acustica, ma procedo certamente a riutilizzare la
formazione rock. Pensi di accompagnare questo ritorno discografico con qualche
apparizione dal vivo? Sì…(prende una lunga pausa e fa una smorfia piuttosto eloquente) Di
fatto, non è più molto semplice, per tanti motivi, esibirsi dal vivo in Italia.
Qualcosa dovrei fare… Forse qualcosa di acustico in estate, e col gruppo
dall’'autunno. Sai già quali musicisti coinvolgere? Io negli anni ho conosciuto dei
musicisti, non così tanti per la verità. Pochi, ma con quelli che ho conosciuto
ho avuto in genere un buon rapporto, abbiamo continuato a suonare. Con alcuni
magari ci si vede di meno, con altri di più. Conterei di rimettere insieme la
formazione de L’Erba e di Exit. Bisognerà vedere poi i tempi di
ognuno, le persone “diventano grandi”: per esempio adesso Franco Cristaldi, il
bassista, si occupa anche di produzioni, e così pure il batterista Ivan
Ciccarelli, che ha messo su un suo piccolo studio. Pierluigi Ferrari, il
chitarrista, è in realtà un chitarrista classico, molto colto e molto bravo. Ad
un certo punto ha tirato fuori la sua anima elettrica, ma ora sta andando alla
grande facendo concerti di chitarra classica. Però penso che si potrà provare a
riunire la squadra di Exit. Quel CD
fu realizzato e concepito nella maniera più desiderabile possibile, a casa mia
in Brianza. Un posto isolato, intorno avevo solo terreni: potevamo suonare a
qualsiasi ora del giorno e della notte. A volte stavamo anche per 48 ore
insieme, alcuni di loro si fermavano a dormire. Alcune delle canzoni che
finirono sull’album, in pratica sono delle jam, cose spontanee. La stessa
versione di Blues scelta per il disco
è una cosa registrata come prova, che poi abbiamo tenuto. Era una situazione
magica, difficile da ripetere. La dimensione privata e discreta del nuovo lavoro mi ha fatto venire in
mente John Lennon. Nella musica qua e là, per alcuni accordi che lo richiamano
spontaneamente, ma anche nello “spirito”. Penso al Lennon più intimo e
quotidiano, quello dei drawings per
esempio. I suoi appunti, i suoi bozzetti, i disegni. E’ un paragone fuori
luogo? No che non lo è. Lennon è il mio
grande amore! Oggi sono in qualche modo vedovo, ma lui rimane il mio grande
amore. C’erano delle digressioni, delle “amanti”: David Bowie, Roxy Music,
Ultravox. Negli anni ’70, quando ho cominciato, ero affascinato dalla new wave,
dalle nuove cose che venivano dall’Inghilterra, e anche molte dall’America. Poi trovando la mai strada è
come se fossi tornato a casa, quindi anche a Lennon, che ascoltavo ancora prima
di fare dischi. Certe modulazioni, certe armonie e melodie lennoniane le ho
amate ed ascoltate talmente tanto che a volte mi viene spontaneo suonare in
quel modo lì. Figurati che nel materiale
che ho da parte, che sarà rivisitato per i prossimi lavori, di un pezzo ho dovuto cancellare tutto
l’inciso: riascoltandolo, mi sono accorto che avevo suonato, praticamente per
intero con delle differenze minime, l’inciso di Love, e non me ne ero accorto! Sono rimasto di pietra, ho pensato “Ma che cavolo ho fatto?”. Beninteso, fa
piacere se qualcuno mi riconosce un’affinità, ma diciamo… che per essere Lennon
mi manca ancora qualcosa! Nel testo di Don’t Cry, dal
disco nuovo, ognuno ha un motivo per piangere o di cui lagnarsi. Si lamenta persino
una nuvola che passa nel cielo. chiede un po’ di silenzio la notte. Mi piace
pensare che possa lamentarsi di te, che sia tu a disturbarla con la tua
canzone. Con la maturità si sta affacciando nelle tue corde l’ironia? Non la
trovo altrove tuoi testi, se non in qualche episodio giovanile dove sembra più
che tu andassi a cercare lo sberleffo, a
pungere qualcuno o qualcosa. Questo pensiero a proposito della
nuvola l’ho avuto anch’io, ma in una seconda lettura. In realtà, per me la
nuvola si lamenta di questo mondo, di questo casino assoluto: “Baaasta...” In un secondo momento mi è
venuto in mente che potevo essere io a disturbarla. Per quanto riguarda la mia
produzione giovanile, devi considerare che due o tre testi dei miei primi
dischi sono di Oscar Avogadro, che essendo uno “del mestiere” giocava molto su
certi aspetti. Poi anche da parte mia c’è stata qualche occasione di giocare
con le parole in un certo modo. Oggi se l’ironia arriva, se capita, la lascio
anche; ma con Don’t Cry intendo proprio un conforto, letteralmente “non
piangere”. Certo, esclamo “Oh, Christ!”,
e c’è questa strofa della nuvola, un’immagine che, più che ironica, trovo
tenera. C’è come ti dicevo un certo addolcimento rispetto alle mie ultime
uscite. Dal disco però sembrerebbe che oltre che confortarti, se occorre sai
essere anche molto duro con te stesso. Fa parte un po’ della mia natura
avere come unica certezza il dubbio, il permettere a me stesso d’esser critico
nei miei confronti, attento. Verso l’Es, che
è sempre capriccioso… Se discuto con qualcuno, quando il mio interlocutore
mette in dubbio le mie tesi diventa il momento per me più interessante Se sento
che mi tocca qualcosa dentro, il dubbio che ne scaturisce non me lo risparmio,
ci lavoro. Io non ho “punti fermi”. Forse questo mi deriva anche da quei dieci
anni che ho impiegato per un incontro con me stesso più ravvicinato, anche
ricorrendo agli allucinogeni, che mi hanno portato ad essere attento: alle mie
reazioni, a ciò che penso in un dato momento. E’ come se lentamente, nel tempo,
il livello dell’inconscio si fosse un po’ alzato. Oggi c’è sempre lì qualcosa
che bolle a pelo d’acqua, però mi è diventato un po’ meno difficoltoso andare a
pescarlo quando affiora. A volte,
vedendo che io non ho niente di particolare da difendere, neanche le mie
idee, l’interlocutore entra in difficoltà.
In genere si difende sempre di più la propria tesi, a costo di
arrampicarsi sugli specchi e trovarsi a un punto morto. Se guardi a tutta la tua produzione discografica, c’è qualcosa che
senti meno tuo, qualcosa che oggi faresti diversamente? Quando ho esordito con Suicidio (1978) ero un ragazzino. Oggi faccio un po’ fatica a sentire mio quel
disco, e ricordo tutto il periodo in studio come abbastanza frustrante. Non che
non rifarei quel disco, perché buona parte del materiale è valida, ma non lo
rifarei a quel modo. Prima esperienza in un grande studio… Il produttore, il
fonico. I musicisti, che non sapevo nemmeno chi fossero – per carità
professionisti, ma turnisti, un po’ funk un po’ jazz, anche con una certa puzza
sotto il naso. Io non sapevo ancora in che modo esprimermi, come muovermi in
uno studio, proprio in termini di relazioni interpersonali, con tutti loro.
Arrivavo un po’ inconsapevole, dicendo questo pezzo lo voglio così, l’altro
cosà, e nascevano grosse discussioni che non sapevo prendere nel modo giusto.
Poi ho imparato, ci sono equilibri difficili che bisogna gestire. I musicisti
di quasi tutti i pezzi di Suicidio sono
quelli chiamati dalla produzione, mentre il mio effettivo gruppo di allora,
giudicato non professionale, suona
solo in due o tre canzoni. Pochi anni fa, qualcuno dell’edizione italiana di Rolling Stone ha passato vecchi dischi
italiani, tra cui Suicidio, al
direttore del Rolling Stone
americano, perché li recensisse. In poche righe, costui ha riconosciuto in
pieno le influenze – in genere qui all’epoca si tiravano in ballo quelle
sbagliate - e ha capito il senso del
lavoro. Ha concluso dicendo “peccato per l’eccessiva enfasi di certi episodi,
ma due capitoli non si possono dimenticare”. Si riferiva ai pezzi suonati dal
mio gruppo. Complimenti ai discografici, che lo bocciarono perché “non
professionale”!Tornare ancora visibile
Becoming Visibile (Interbeat 2009) segna il ritorno
discografico di Fausto Rossi, già Faust’o, dopo tredici anni di silenzio. Dagli
esordi new wave, agli esperimenti strumentali di metà anni ’80 e al pop
elettronico dei primi ’90, dalla riaffermazione di un rock d’autore
all’essenzialità dell’ ultimo lavoro, Fausto è uno dei talenti più originali ed
autenticamente indipendenti che l’Italia abbia mai avuto. La sua preziosa
“unicità” traspare, crdiamo, anche dall’intervista che ci ha concesso.
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