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Fausto Rossi

Tornare ancora visibile

Becoming Visibile (Interbeat 2009) segna il ritorno discografico di Fausto Rossi, già Faust’o, dopo tredici anni di silenzio. Dagli esordi new wave, agli esperimenti strumentali di metà anni ’80 e al pop elettronico dei primi ’90, dalla riaffermazione di un rock d’autore all’essenzialità dell’ ultimo lavoro, Fausto è uno dei talenti più originali ed autenticamente indipendenti che l’Italia abbia mai avuto. La sua preziosa “unicità” traspare, crdiamo, anche dall’intervista che ci ha concesso.

   

C’è un tratto comune alle otto canzoni di Becoming Visible? Forse  ne hai composte alcune in tempi recenti, ed altre le tenevi nel cassetto da un po’? Avverto un atteggiamento di distacco e un altro di sofferta partecipazione, rispetto agli affanni e ai dolori del mondo.

Le canzoni sono tutte nuove, scritte nel giro di un mese, un mese e mezzo. Forse più che di partecipazione parlerei di osservazione. Sono trascorsi 13 anni dalla mia precedente uscita discografica, anche se nel frattempo ho continuato a scrivere e a suonare. Fra l’altro, Exit era un disco piuttosto duro, io ero molto coinvolto dalle cose che mi circondavano, dal “mondo”. Poi “il tempo passa”, e non sentivo il bisogno di continuare esattamente su quella strada. C’è altro materiale, che non è entrato in questo disco perché mi sembrava poco adatto ad una riapparizione dopo tanto tempo. Volevo che questa riapparizione fosse facile, senza effetti speciali, discreta. Quelli che cominciano a diventare visibili di me sono in fondo i sentimenti miei, personali. E’ senz’altro un lavoro più intimo di Exit.  C’è anche il fatto che non credo che questo mondo, questo sistema di cose, questa macchina possa assolutamente essere fermata: almeno al momento, poi tutto ha una fine, ma la macchina ha preso una strada e si muove in quella direzione, sempre più precisa, sempre più sicura di sé. Non riesco ad immaginare cosa possa scardinarla, o risistemare questo mondo. Piuttosto che sentirmi così coinvolto, mi sono ritrovato nei panni dell’osservatore. Non che io sia meno incazzato, meno disposto ad attaccare questa macchina. Cercarne il cuore  è un po’ come se fosse il mio mestiere. Non lo troverò mai, ma non importa, é ciò che m’interessa fare. Sia nei testi sia musicalmente,  svilupperò un discorso nell’arco di  tre dischi. Anche il secondo e il terzo  - se le cose vanno per il verso giusto – dovrebbero essere pubblicati entro la fine dell’anno. So già dove arriverò col terzo album, sia nel suono che nei contenuti. Non ho abbandonato il campo. Ho abbandonato il vortice, ma non smetto di osservare, e non smetto di provare rancore verso questa macchina. Ho la convinzione, che probabilmente hanno in tanti, che questa vita sia un semplice sogno. Ma ammesso che sia così come dico, a me non fa piacere che mi abbiano trasformato questo sogno in un disastro, in un incubo, e non posso dimenticare questo disastro che si perpetua da migliaia di anni. Nei prossimi due dischi  sarò sempre molto attento, e forse anche più duro di quanto non sia stato in Exit. Forse più chiaro: nel momento in cui sei molto coinvolto nelle cose il campo di battaglia è un grandissimo caos, non sai chi sta colpendo, da dove, quando, non capisci chi devi colpire. Invece, ora certi temi potrebbero diventare ancora più chiari, ancora più duri, nonostante un inizio apparentemente pacifico.

Musicalmente i prossimi due dischi saranno ancora sulla linea asciutta e essenziale, quasi minima, di Becoming Visible?

No, posso dirti che il terzo sarà senz’altro con una formazione rock classica: batteria, basso, chitarre, forse delle tastiere se serviranno. Con L’Erba (1995) per quello che riguarda il genere ho fatto una svolta decisiva: ho ritrovato la mia strada, quella che probabilmente avevo scelto da sempre, ancora prima di entrare nella discografia, che è la musica rock, in certi casi un po’ pop.  Ultimamente sto tirando un po’ sul blues, mi piace indugiare su quelle atmosfere, già su Exit qualche elemento blues era presente. E’ probabile che nei prossimi dischi ci sarà ancora qualche pezzo con me da solo alla chitarra acustica, ma procedo certamente a riutilizzare la formazione rock.

Pensi di accompagnare questo ritorno discografico con qualche apparizione dal vivo?

Sì…(prende una lunga pausa e fa una smorfia piuttosto eloquente) Di fatto, non è più molto semplice, per tanti motivi, esibirsi dal vivo in Italia. Qualcosa dovrei fare… Forse qualcosa di acustico in estate, e col gruppo dall’'autunno.

Sai già quali musicisti coinvolgere?

Io negli anni ho conosciuto dei musicisti, non così tanti per la verità. Pochi, ma con quelli che ho conosciuto ho avuto in genere un buon rapporto, abbiamo continuato a suonare. Con alcuni magari ci si vede di meno, con altri di più. Conterei di rimettere insieme la formazione de L’Erba e di Exit. Bisognerà vedere poi i tempi di ognuno, le persone “diventano grandi”: per esempio adesso Franco Cristaldi, il bassista, si occupa anche di produzioni, e così pure il batterista Ivan Ciccarelli, che ha messo su un suo piccolo studio. Pierluigi Ferrari, il chitarrista, è in realtà un chitarrista classico, molto colto e molto bravo. Ad un certo punto ha tirato fuori la sua anima elettrica, ma ora sta andando alla grande facendo concerti di chitarra classica. Però penso che si potrà provare a riunire la squadra di Exit. Quel CD fu realizzato e concepito nella maniera più desiderabile possibile, a casa mia in Brianza. Un posto isolato, intorno avevo solo terreni: potevamo suonare a qualsiasi ora del giorno e della notte. A volte stavamo anche per 48 ore insieme, alcuni di loro si fermavano a dormire. Alcune delle canzoni che finirono sull’album, in pratica sono delle jam, cose spontanee. La stessa versione di Blues scelta per il disco è una cosa registrata come prova, che poi abbiamo tenuto. Era una situazione magica, difficile da ripetere.

La dimensione privata e discreta del nuovo lavoro mi ha fatto venire in mente John Lennon. Nella musica qua e là, per alcuni accordi che lo richiamano spontaneamente, ma anche nello “spirito”. Penso al Lennon più intimo e quotidiano, quello dei drawings per esempio. I suoi appunti, i suoi bozzetti, i disegni. E’ un paragone fuori luogo?

No che non lo è. Lennon è il mio grande amore! Oggi sono in qualche modo vedovo, ma lui rimane il mio grande amore. C’erano delle digressioni, delle “amanti”: David Bowie, Roxy Music, Ultravox. Negli anni ’70, quando ho cominciato, ero affascinato dalla new wave, dalle nuove cose che venivano dall’Inghilterra, e anche molte  dall’America. Poi trovando la mai strada è come se fossi tornato a casa, quindi anche a Lennon, che ascoltavo ancora prima di fare dischi. Certe modulazioni, certe armonie e melodie lennoniane le ho amate ed ascoltate talmente tanto che a volte mi viene spontaneo suonare in quel modo lì. Figurati che nel  materiale che ho da parte, che sarà rivisitato per i prossimi lavori,  di un pezzo ho dovuto cancellare tutto l’inciso: riascoltandolo, mi sono accorto che avevo suonato, praticamente per intero con delle differenze minime, l’inciso di Love, e non me ne ero accorto! Sono rimasto di pietra, ho pensato “Ma che cavolo ho fatto?”. Beninteso, fa piacere se qualcuno mi riconosce un’affinità, ma diciamo… che per essere Lennon mi manca ancora qualcosa!

Nel testo di Don’t Cry, dal disco nuovo, ognuno ha un motivo per piangere o di cui lagnarsi. Si lamenta persino una nuvola che passa nel cielo. chiede un po’ di silenzio la notte. Mi piace pensare che possa lamentarsi di te, che sia tu a disturbarla con la tua canzone. Con la maturità si sta affacciando nelle tue corde l’ironia? Non la trovo altrove tuoi testi, se non in qualche episodio giovanile dove sembra più che tu andassi  a cercare lo sberleffo, a pungere qualcuno o qualcosa.

Questo pensiero a proposito della nuvola l’ho avuto anch’io, ma in una seconda lettura. In realtà, per me la nuvola si lamenta di questo mondo, di questo casino assoluto: “Baaasta...” In un secondo momento mi è venuto in mente che potevo essere io a disturbarla. Per quanto riguarda la mia produzione giovanile, devi considerare che due o tre testi dei miei primi dischi sono di Oscar Avogadro, che essendo uno “del mestiere” giocava molto su certi aspetti. Poi anche da parte mia c’è stata qualche occasione di giocare con le parole in un certo modo. Oggi se l’ironia arriva, se capita, la lascio anche; ma con  Don’t Cry intendo proprio un conforto, letteralmente “non piangere”. Certo, esclamo “Oh, Christ!”, e c’è questa strofa della nuvola, un’immagine che, più che ironica, trovo tenera. C’è come ti dicevo un certo addolcimento rispetto alle mie ultime uscite.

Dal disco però sembrerebbe che oltre che confortarti, se occorre sai essere anche molto duro con te stesso.

Fa parte un po’ della mia natura avere come unica certezza il dubbio, il permettere a me stesso d’esser critico nei miei confronti, attento. Verso l’Es, che è sempre capriccioso… Se discuto con qualcuno, quando il mio interlocutore mette in dubbio le mie tesi diventa il momento per me più interessante Se sento che mi tocca qualcosa dentro, il dubbio che ne scaturisce non me lo risparmio, ci lavoro. Io non ho “punti fermi”. Forse questo mi deriva anche da quei dieci anni che ho impiegato per un incontro con me stesso più ravvicinato, anche ricorrendo agli allucinogeni, che mi hanno portato ad essere attento: alle mie reazioni, a ciò che penso in un dato momento. E’ come se lentamente, nel tempo, il livello dell’inconscio si fosse un po’ alzato. Oggi c’è sempre lì qualcosa che bolle a pelo d’acqua, però mi è diventato un po’ meno difficoltoso andare a pescarlo quando affiora. A volte,  vedendo che io non ho niente di particolare da difendere, neanche le mie idee, l’interlocutore entra in difficoltà.  In genere si difende sempre di più la propria tesi, a costo di arrampicarsi sugli specchi e trovarsi a un punto morto.

Se guardi a tutta la tua produzione discografica, c’è qualcosa che senti meno tuo, qualcosa che oggi faresti diversamente?

Quando ho esordito con Suicidio (1978) ero un ragazzino. Oggi faccio un po’ fatica a sentire mio quel disco, e ricordo tutto il periodo in studio come abbastanza frustrante. Non che non rifarei quel disco, perché buona parte del materiale è valida, ma non lo rifarei a quel modo. Prima esperienza in un grande studio… Il produttore, il fonico. I musicisti, che non sapevo nemmeno chi fossero – per carità professionisti, ma turnisti, un po’ funk un po’ jazz, anche con una certa puzza sotto il naso. Io non sapevo ancora in che modo esprimermi, come muovermi in uno studio, proprio in termini di relazioni interpersonali, con tutti loro. Arrivavo un po’ inconsapevole, dicendo questo pezzo lo voglio così, l’altro cosà, e nascevano grosse discussioni che non sapevo prendere nel modo giusto. Poi ho imparato, ci sono equilibri difficili che bisogna gestire. I musicisti di quasi tutti i pezzi di Suicidio sono quelli chiamati dalla produzione, mentre il mio effettivo gruppo di allora, giudicato non professionale, suona solo in due o tre canzoni. Pochi anni fa, qualcuno dell’edizione italiana di Rolling Stone ha passato vecchi dischi italiani, tra cui Suicidio, al direttore del Rolling Stone americano, perché li recensisse. In poche righe, costui ha riconosciuto in pieno le influenze – in genere qui all’epoca si tiravano in ballo quelle sbagliate -  e ha capito il senso del lavoro. Ha concluso dicendo “peccato per l’eccessiva enfasi di certi episodi, ma due capitoli non si possono dimenticare”. Si riferiva ai pezzi suonati dal mio gruppo. Complimenti ai discografici, che lo bocciarono perché “non professionale”!

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