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Manifesta superiorità

La musica come telecomanda Sanremo

di Ambrosia J.S.Imbornone

Eccoci alla seconda puntata. Finalmente è il turno dei Giovani, ma come l’anno scorso la direzione Mazzi li relega in fine puntata. Grazie a Dio questa volta non ci sono minorenni costretti al contributo filmato. Ma andiamo per ordine: per due ore sfilano i 12 Artisti (nuova discutibile dicitura dei Big) già ascoltati ieri. Appaiono tutti più rilassati e lo spettacolo ci guadagna.

Sicura e impetuosa appare soprattutto l’esibizione dei Modà con Emma: Francesco Silvestre e l’interprete salentina si girano intorno, annodano le loro voci, l’una robusta da pop-rocker, l’altra ruvida, si annusano, si guardano negli occhi (quando Emma non guarda efficacemente in camera, da buon animale televisivo). Come se volessero assalirsi reciprocamente (amorosamente o aggressivamente). Molto carichi. Anche troppo?

Ma più “giovani” del loro pop smaliziato sembrano le canzoni di Madonia e Van De Sfroos: il primo brano non avrà molto peso specifico, ma il suo cantautorato sintetico “abbattiato” cresce negli ascolti grazie anche ad una performance vocale di classe, mentre il secondo (qui sotto nella foto), annunciato da squilli di tromba, è l’unica canzone ironica in gara tra i Big, con il suo travolgente patchanka che fonde folk e cenni di ska, con i racconti irresistibili/improbabili del suo Yanez. Purtroppo invece il pezzo di Pezzali pare avere la freschezza di un adolescente degli anni ’90 ibernato dopo il pogo scatenato di una festa in casa. Ma ogni artista ha la sua storia e più si ascoltano le canzoni, e più emerge il valore dei percorsi individuali e del carisma attuale. Di una raffinatezza sopraffina che ipnotizza appaiono una volta in più allora i La Crus: Joe è l’apostolo di un mondo altro, materiato di cinema, cantautorato ligure (ma anche istriano e livornese…), fumo, peccati e perdoni inevitabili dinnanzi ad una confessione “confidenziale” che ammette le sue dipendenze carnali, ma nel ritornello avvolgente proclama l’indissolubilità della complicità. Chiara anche la concentrazione e l’intensità di Barbarossa, frutto della sua esperienza, ma il brano è molto debole: di duetti profumati di rosa ne abbiamo già respirati tanti in Riviera negli anni. Indiscutibile invece la formula di Vecchioni, che associa delicatezza e drammaticità senza bisogno di essere sopra le righe: il Professore sente le sue parole, si lascia scuotere dalla loro potenza immaginifica ed ideale sottile, le scandisce forte ed arrivano come un nuovo inno che guidi al di là di una «maledetta notte».

Nathalie torna con le note di cristallo del suo piano, con un brano che è una carezza di brividi che conduce ad un’esplosione di chitarre e batteria: la struttura e la linea vocale non facile fanno sentire il peso emozionale di una condizione emotiva sospesa. Tricarico ridà la carica al suo carillon della storia, sicuramente più emozionante di tante strombazzate retoriche sul 150°: la sua interpretazione accarezza con dolcezza le figure descritte, quei “soldatini” che paiono strappati ad un album di foto d’epoca.

Una buona grinta dimostrano intro e ritornello del brano di Giusy Ferreri, così come le strofe scandite dal basso, ma neanche Bungaro ci sembra possa salvarla: la sua voce non è sufficientemente “coltivata” per misurarsi di fino con questa canzone e sembra ingolfarsi in vocalizzi di gola. Del brano di Al Bano non sono disprezzabili gli spunti folk nelle strofe, ma l’interpretazione zoppica nella parte più sofferta della canzone e finisce per risultare troppo urlata. Non decolla e il cantante pugliese viene eliminato. Stessa sorte per Patty Pravo: ritmica e chitarre del pezzo sono innocuamente rilassanti, l’intonazione dell’elegante interprete è precaria, ma con una forza vocale maggiore quale quella di Morgan (ospite previsto nella serata dei duetti) l’apertura del ritornello sarebbe molto suggestiva. Incrociamo le dita per il ripescaggio.

Quando l’ora si ritiene sufficientemente tarda perché si possa dare spazio anche alle nuove proposte 2011, tocca a Serena Abrami aprire la loro gara. Propone Lontano da tutto, un brano di Niccolò Fabi, il cui spessore è ovviamente palese. La canzone ha un ritmo scintillante, irrorato dal suono delle chitarre acustiche, tra cui si inserisce il brillare rado e intermittente di piccole note discrete di chitarra elettrica. La metrica del cantautore non è facile per la Abrami, ma la cantautrice marchigiana supera la prova grazie alla sua espressività, che alterna un’intensità ferma come un nodo in gola a sorrisi distensivi, quasi a godere dell’ebbrezza della corsa per riappropriarsi della propria libertà espressa dal testo finemente intimista. Serena è un esempio di grazia e misura ed appare solare e rassicurante nella sua entrata sorridente: solo terminata l’esibizione, tradirà un po’ di emozione liberatoria.

Anansi porta sul palco dell’Ariston il suo look rasta, molto casual, e una ventata di reggae con la sua Il sole dentro; buona sembra la padronanza del genere, coltivato evidentemente con passione, ed anche quella vocale, ma non mancano imperfezioni laddove i versi si riempiono di molte parole. E fin dall’intro con voce filtrata i versi sono fitti e veloci. D’altronde l’artista italiano che verrebbe da citare come referente è quel Neffa proveniente dall’hip-hop. La canzone sfodera un bel groove, ma non va molto oltre: il testo non spicca per particolare originalità, anche se possiede qualche passaggio in cui l’intenzione potrebbe essere apprezzabile, e suona nel complesso un po’ banalmente prosastico/quotidiano.

Gabriella Ferrone esibisce in Un pezzo d’estate una vocalità black, tra soul e r’n’b, molto precisa. Afferma di sognare un percorso simile a quello della Tatangelo, ma parrebbe guardare in casa nostra più allo stile di Tiziano Ferro. Ovviamente però il genere è soprattutto anglofono e forse è anche per adeguarsi ad una certa ritmica che la canzone presenta versi che lasciano molto perplessi, con ripetizioni di monosillabi funzionali solo alla metrica. Particolarmente banale poi la parte parlata che mostra una sfrontatezza da donna sicura di sé un po’ di maniera (e forse un tantino volgare).

Dulcis in fundo, ecco Raphael Gualazzi con la sua Follia d’amore jazzata: anche in questo caso i versi non brillano di luce propria, ma a tratti non manca una profondità segreta di senso, deliziosa proprio perché celata in forme semplici ed immediate. Ma il swing del brano e la voce distraggono dalle parole: Gualazzi vola alto al di sopra delle altre proposte sulle note sciolte e eleganti del suo piano. Il suo stile pianistico mostra senz’ombra di dubbio studio e classe, facendo impallidire tanti presunti musicisti, mentre la sua voce di seta sfodera una musicalità che pare modellata addirittura su voci femminili dal timbro scuro e pastoso quali quelle di Billie Holiday e Nina Simone. Cerca di spingere negli acuti, in un modo che rammenta lo stile funky di Jamiroquai, ma che appare da migliorare, magari puntando invece sul già interessante falsetto stile Motown. Impagabile ovviamente la tromba di Fabrizio Bosso, a dipingere atmosfere in bianco e nero da night club. Il brano non è innovativo, ma il rigore “filologico” con cui viene presentato è lodevole. E Raphael si guadagna l’accesso alla finale, con Serena Abrami.

Riassumendo la serata dei “giovani, la parola chiave pare una sola: manifesta superiorità.

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2 commenti

Fabio Antonelli { 17/02/2011 )

Mi trovo in piena sintonia con l'autrice

Roberta_Maiorano { 17/02/2011 )

Cara SERY, continuo a leggere i tuoi commenti astiosi e acidi nei miei riguardi, manco avessi scritto una manciata di versetti satanici. Ma chi ti conosce e come ti permetti? Cafona ineducata!


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