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Conservatorio di Milano

Roberto Vecchioni

Vecchioni e l’Orchestra giovanile Cherubini: uno spettacolo per lui, per noi e per Milano

C’era un’intera orchestra eppure sarebbero bastate quelle tre canzoni accompagnate con la chitarra di Massimo Germini  e dal resto della band (nella foto di Roberta Maiorano qui a fianco) per dare un senso alla serata, per scaldarla e riempire di parole e di musica che ti toccano, che fanno vibrare. Certo la location era particolare, non il solito teatro né un palazzetto, luoghi cioè “prestati” alla musica, ma il Conservatorio, un tempio della musica, con dimensione e acustica propri di un concerto. Allora sì, un’orchestra ci sta proprio bene; se poi è l’Orchestra Giovanile Cherubini assume ancora più particolarità associata ad un cantastorie di così lungo percorso.

Il pubblico è delle grandi occasioni, non s’intravedono posti liberi. Quando entra il Prof è già quasi da subito un’ovazione. Prima di apprezzare un pezzo, un concerto, un lavoro, c’è tanto affetto da parte della gente, da parte della sua Milano, per chi ha accompagnato diverse generazioni con le sue canzoni e il suo spessore culturale. E lo spettacolo è proprio “da Prof”, di chi sale in cattedra e ti coinvolge attraverso il racconto del suo ultimo romanzo Il mercante di luce con la passione per i classici, per la Grecia antica, da un semplice termine fino alla poesia. Intervalla così i pezzi cantati Vecchioni, parlando del romanzo, ma come ama fare, anche e soprattutto di sé, col denominatore comune che sempre accompagna i suoi discorsi, come i suoi testi: l’amore. Con quella capacità unica di non banalizzare mai, di poter sentire il termine “amore” in tutte le salse e i significati e sentirlo profondo come merita, senza imbarazzo alcuno tra una folla che gremisce il Conservatorio e che silenziosa ascolta e si gode qualche minuto di apnea nei sentimenti.

Non perde tempo Vecchioni ed esordisce con L’ultimo spettacolo che come sempre non ti dà nemmeno lo spazio di ambientarti calandoti immediatamente nell’atmosfera che conta, quella che parte da lontano, da molto lontano, ma così attuale da emozionare sul serio. Poi il ritmo si alza con El bandolero stanco seguita da Io non appartengo più che dall’ultimo album ci porta nel disagio verso questo tempo che Vecchioni esprime cantando ed espone nei momenti di dialogo con il pubblico, con qualche aneddoto esilarante sui social network e un po’ di sano richiamo all’abuso della libertà di parola che autorizza a dire di tutto su tutto, senza talvolta curarsi del rispetto e soprattutto della conoscenza delle cose che dovrebbe essere alla base dei concetti, o almeno di quelli all’altezza di essere ascoltati.
Ecco qualche nota di chitarra e “Fernando Pessoa chiese chi occhiali e si addormentò…” , le prime parole de Le lettere d’amore che ti riportano in un balzo nella Lisbona di Fernando Pessoa, nel timore di “essere ridicoli” quando si parla e scrive d’amore, che Pessoa, come Vecchioni, fanno scomparire per quanto ti ricordano di come sia vero, potente e determinante questo sentimento. Ne I colori del buio poi c’è la vita del Prof raccolta in pochi versi, dirompenti come il tono che sale con la musica. L’orchestra, coi suoi archi e suoi fiati, s’impone ne Il miracolo segreto, accompagna con discrezione Vecchioni durante e dopo il pezzo, ascoltandolo ancora parlare, raccontare, divertirsi, come quando coinvolge il Direttore Mario Menicagli ricordandogli i suoi trascorsi televisivi da ragazzo. Ancora la vita personale e intima in Due madri, storia di nipotine e giovani madri di una modernità finalmente opportuna, dove spicca inoltre l’arrangiamento del solito maestro Lucio Fabbri che ha il merito di aver curato le sinergie tra la band e l’orchestra, costruendo un mix intenso, delicato e appagante in un contesto così solenne.

Non poteva mancare Vincent, altro pezzo dolce quanto il suono delle corde della chitarra di Germini, abile nell’accompagnare il Prof e seguirlo nel suo parlato/cantato, unico e inimitabile. Si va verso la fine quando ancora Vecchioni ci confida una parte di sé ne Ho conosciuto il dolore, canzone che riesce a trovare la chiave positiva nella descrizione di un sentimento di sofferenza. Canzone che dal vivo acquista ancora più forza, con quel finale “e tu, mio dolore, non sei un cazzo di niente” che in poche parole descrive come il tutto si possa risolvere ed esprimere con semplicità, con una popolarità non volgare, quella che Vecchioni sa esprimere da sempre. La stessa che ha voluto coltivare con la partecipazione a Sanremo di qualche anno fa, con quella canzone che ora ci ripropone, Chiamami ancora amore, che ancora una volta abusa del termine amore, come per dirci che l’amore non appartiene né ai poeti, né ai colti, né ai saggi, ma all’uomo e alla sua natura.
Si commuove il Prof ne Le rose blu e noi con lui quando lo vediamo così coinvolto, quando non si sottrae né si limita nel suo sentire e nell’esprimerlo.

Questa serata l’ha voluta per lui e per noi, così vuole specificare, unica e irripetibile, con la sua band e con un’orchestra, nella sua Milano che ci tiene alla fine a ringraziare e celebrare. Non prima, certo, di aver cantato Luci a S. Siro e Samarcanda e di averci regalato l’ennesima sensazione che queste due ore siano passate troppo in fretta. Tutti in piedi.

(Foto di Roger Berthod)


 

 

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In dettaglio

  • Data: 2015-03-12
  • Luogo: Conservatorio di Milano
  • Artista: Roberto Vecchioni

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