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Triennale Bovisa, Milano

Patti Smith e Casa del Vento

Erano lì entrambi, come congelati dalla macchina del tempo: Lei, capelli scuri e lisci; Lui capelli lunghi e mossi. Entrambi magri. Entrambi affamati di vita, di una vita diversa. La chiesa di San Marco, a New York, accoglieva un reading di poesie. Era una fredda serata di febbraio, il 10, del 1971. Tutto era in bianco e nero. Era passato da poco il fuoco di Woodstock ed ardeva, ancora, la jungla del Vietnam. Entrambi un pugno d’ossa ma il cuore infiammato d’amore e di passione per l’arte. Entrambi commessi in una libreria (un book store, come si dice da quelle parti…), entrambi segnati dal loro primo incontro e da quella serata incombente. Arrivarono gli applausi: Lenny Kaye si avvicinò alla ragazza, una ventiduenne di Chicago, ed entrambi fecero un inchino. “E’ andata bene, Patti” disse sottovoce Lenny. Lei lo guardò e disse “O.k., partiamo…”. E partirono davvero alla conquista del rock and roll e ci riuscirono con il Patti Smith Group

 

Nell’ambito del MiTo, nel cortile della Triennale Bovisa il sempre magro ed etereo Lenny Kaye e la sempre intensa e “mistica” Patti Smith hanno mantenuto la loro promessa di conquistare il mondo del rock ed in questo mini tour italiano, aiutati dal gruppo aretino de La casa del vento, una straordinaria sorpresa per chi non li conosceva, hanno offerto un set davvero speciale. I componenti della band, puntualissimi, fanno appena in tempo a schierarsi alle loro postazioni che a passo felpato entrano sul palco Patti Smith e Lenny Kaye e l’applauso che scaturisce dal pubblico è subito immediato e sentito. Lei sa di avere nel nostro Paese ancora largo ascendente, culturale e musicale, e con il suo sguardo miope inizia ad indagare la platea, visibilmente contenta. E qui, come spesso accade, la fragile ed ormai ultrasessantenne signora del punk-rock U.S.A. lascia il posto al suo omerico alter ego, un “personaggio” che la rappresenta ma che, insieme, è sempre diversa, è sempre oltre, è sempre al di là dell’immediata percezione. Nulla di trascendentale: è tutto assolutamente “normale” e carnale ma lei, quando canta, si pone, naturalmente in un altro piano del tempo e dello   spirito.

Per questo un concerto (anche questo concerto) di Patti Smith, coadiuvata da Lenny Kaye, suo fido scudiero di sempre (questa volta alla chitarra acustica) e dai bravi musicisti della band aretina che l’hanno assecondata senza risparmio né sbavature, è un esempio di straordinario approccio all’arte nella sua totalità, nella ricerca di una dimensione che affranchi chi l’ascolta dalla realtà contingente portandoci, anche nostro malgrado, “oltre le porte della percezione”.

Un concerto di questa artista non lo si può comprendere utilizzando i soli strumenti dell’analisi musicale e lirica, della capacità di stare in scena e/o d’essere ben in sintonia con la band sul palco. Un suo concerto è qualcosa di più profondo, che entra nell’animo, che tende a strapparti qualcosa di te, qualcosa a cui tieni molto ma non lo vuoi dire a nessuno. E quella voce, insieme alle musiche ed alle liriche, irrompe in quell’angolo riposto dell’animo e ti interroga, chiedendoti conto di mille e mille cose e, spesso, ti accorgi, per la prima volta, che quella voce non è la sua bensì la tua. Lei diventa un “semplice” medium capace di risvegliarti e di chiederti, con il dito puntato “Ma tu chi seima che cosa cerchi dalla tua vita?”. E, spesso, la risposta fa più paura della domanda…

La casa del vento ha offerto, per la serata, tanta grinta, capacità di stare disciplinatamente al proprio posto senza mai debordare dal proprio compito; ha messo in campo tanta perizia strumentale con chitarre acustiche ed elettriche, slide, basso elettrico, batteria, fisarmonica e violino che, insieme alla chitarra di Lenny Kaye, sono stati il perfetto supporto musicale alle canzoni di Patti Smith interpretando, anche e solo, due brani della propria produzione: Ogni splendido giorno e Carne da cannone, un brano, questo, a cui Patti Smith ha dato il suo supporto canoro aggiungendo una sorta di declamatoria sottolineando con decisi “no more war” la sua posizione sul tema della stupidità della guerra.

Ed il concerto è stato un come un viaggio dove la versione femminile di Omero ha raccontato la vita, la morte, le gioia, le delusioni, le lacrime ed il sorriso di ciascuno di noi. Insomma, ha raccontato la vita partendo da Frederick, intro veloce, pieno di vita e di vigore, ha il ritmo della gioia e della volontà, ha ritmo della decisione ed, insieme, della paziente costanza. La “narratrice” ha fretta perché sa che il discorso è lungo e non gradisce interruzioni e/o remore di alcuna natura. Lenny Kaye, intanto, veglia dall’alto della sua esperienza e la band sa fare tesoro della propria perizia strumentale e degli innumerevoli ascolti dei brani dalla Smith che pare voglia dire a ciascuno dei presenti “ehi, svegliati dal tuo sonno…”.

Arriva il ricordo e l’emozione di Redondo beach dovei suoni di tastiere e fisarmonica tengono alto il ritmo/senso del reggae. L’aria musicale sbarazzina si sovrappone a parole piene di ansia. Non c’è mai troppo tempo per giocare perché la vita, lei, gioca a farti andare fuori strada  ed il profumo del mare, talvolta, è così inebriante da farti perdere la testa…Nella memoria di ciascuno di noi c’è una spiaggia, c’è il senso della ricerca, della perdita temuta, del ritorno sperato e trovato. I poeti sono persone serie e per comprenderli ed imitarli bisogna immergersi dentro il loro essere ed in My Blakean year si percepisceun’ode all’anno in cui la “poetessa” si è immersa nelle liriche e nella vita di William Blake. In lei è sempre stato forte, come in Jim Morrison, il bisogno di esplorare il linguaggio, di penetrarne i contenuti e gli arcaismi, di generare nuovi significati in contrapposizione a quelli ancestrali. William Blake e Patti Smith si incontrano e ne nasce un binomio di straordinaria intensità. I musicisti de La casa del vento ci danno dentro come stantuffi ed ogni nota è al posto giusto, senza nessuna increspatura. Le liriche sono diritte come lame e vibrano nell’aria come staffili. Il pubblico è in silenzio quasi fosse in chiesa e le parole ballano con le note.  

Wind è giocata su toni morbidi, con violino e slide a dettare i tempi e la band ad assecondare il canto della Smith. Una canzone che dispiega, realmente, le sue ali e sembra accogliere sotto di esse la band ed il pubblico ipnotizzato dall’arte della Smith. E la band aretina riesce a fare una gran bella figura, tenendo testa all’artista di Chicago. Segno di grande e puntuale preparazione per questo “magico” appuntamento. 

La sera sera è ormai inoltrata e Ghost dance, la danza degli spettri, avanza tra le pieghe della mente. Quali spettri e quali menti verrebbe la voglia di chiedersi? Gli spettri di coloro che abbiamo perso? Gli spettri degli assenti fino alla fine del tempo? La mente razionale oppure quella che guarda oltre il velo di Maya per liberarsi dalla schiavitù del tempo, della vita e della morte?

Domande accademiche ed inutili perchè, come canta Patti Smith, “we shall live again” ed allora, quel giorno, gli spettri saranno dispersi ed “i tendini si riuniranno alle ossa” e tutto sarà di nuovo Uno e così “noi vivremo ancora e faremo uscire il fantasma” e come bambini danzeremo a piedi nudi…in Dancing barefoot cheLenny Kaye introduce un suono acustico ed il ritmo della band è ben serrato e coeso. Tutto è pronto per introdurre la voce omerica di Patti Smith, la voce narrante della metafora della vita, delle sue mille vite (forse). Il pathos tra lei, Kaye e La casa del vento è davvero unico e stringente e quello che appare è la grandezza di un sound capace di fare vibrare il sentimento ed il corpo, il metafisico ed il carnale. Forti sono i segni del pathos che prepara il terreno “per roteare in continuazione fino a perdere il mio senso di gravità”.    

Beneath the southern cross è dedicata a coloro che non ci sono più, alle persone amate e che ora appartengono ad un’altra dimensione. Un messaggio per coloro che, comunque scomparsi, sono però sempre presenti nel cuore di chi ne serba il ricordo. Il suono che scaturisce dalla chitarra acustica di Kaye è una sorta di messaggio subliminale, ipnotico e stordente, e sostiene il canto di Patti Smith. La band è solida nel contribuire a mantenere alto il pathos del brano, della narrazione, delle note che “grondano” malinconia. La chitarra elettrica con bottleneck è uno stantuffo stridente di note che si accavallano tra loro e la performance della Smith è potente, profonda, vera, sanguigna ed alla fine lei è nettamente ed evidentemente commossa quasi pronta per le lacrime che solo una grande forza d’animo riesce a trattenere. Davvero un’interpretazione superba nella quale la donna e l’artista, con tutte le loro debolezze, sono un unico spirito.    

Pissing in a river è, come  sempre, attesae le note della “vecchia” canzone librano nell’aria. La voce è ispirata e colma di malinconia. Non c’è, però, tempo, per i ricordi perché ogni giorno è dedicato alla lotta, all’agone dove ogni cosa si compie, in cui ogni realtà si trasforma. Il vecchio è stato ormai smascherato ed un altro mondo ha necessità di sorgere. C’è tanto vigore ed anche tanta nostalgia in quello sguardo teso ed antico che accompagna le liriche della canzone ed il pensiero vola verso la fabbrica di giocattoli in cui “lei” avrebbe potuto essere prigioniera per sempre.

Ma così, fortunatamente, non è stato e lo testimonia Because the night, la cuistoria racconta di una cassetta stereo 7 che da tempo viaggiava nella tasca posteriore dei jeans di Bruce Springsteen in quel di New York City. Gli studi d’incisione erano i medesimi ed entrambi stavano dando l’assalto al cielo. Lui non era convinto di quella canzone, lei aveva bisogno di un abbraccio speciale per trasformare un’idea in una meraviglia. E l’abbraccio arrivò ed insieme anche il mistero giunse a bussare alla porta della musica…Ed anche in questa serata milanese, con una band dal nome evocativo, le note di quella magica e mistica canzone, Because the night, hanno risuonato nell’aria per la gioia e per i sogni di tutti coloro che credono che la notte e l’amore non siano in antitesi ma raccontino lo stesso desiderio: quello della vita. L’assolo della chitarra di Lenny Kaye accarezza la notte ed il profilo della sua “antica” compagna d’arte e di illusioni.

Arriva il momento di Gloria (con una falsa partenza nella quale la Smith “gigioneggia” con i suoi capelli formandosi due lunghe trecce e chiacchierando con il pubblico) e quando la canzone riparte con le prime parole immediatamente il pubblico le sottolinea accompagnandole con il supporto canoro, dando il proprio contributo alla canzone, appropriandosene in toto, come da anni avviene ad ogni concerto. E’ nato tutto da quelle note e da quelle parole, è nato tutto da quelle intuizione sonore e liriche. E’ nato tutto da quei giorni sobri, anzi poveri, in cui due ragazzi, Just Kids per dirla come il titolo del recente libro di Patti Smith, aspiravano all’arte ed immaginavano che sarebbero diventati famosi.

Così fu ed ancora oggi questa canzone è la colonna sonora di un sogno che non si è interrotto. La voce è splendida e cupa, il ritmo spiritato e veloce, il violino e la fisa sono precisi e determinati, la chitarra di Lenny Kaye non si lascia sorprendere e la chitarra elettrica, suonata con il bottleneck, è una lama affilata ed efficace. Patti salta sul palco come una ragazzina a dispetto dei suoi …anta e pare davvero colta dall’urto dell’estasi.

lI pubblico è in delirio ma, anche, come soggiogato da questo scricciolo di donna capace di scatenare uragani emotivi e mistici in ogni anfratto della nostra anima. E’ la fine, apparente, del concerto perché un bis ad un pubblico ammaliato non si rifiuta mai anche per confermare che, forse, “Gesù morì per i peccati di qualcuno ma non per i miei…”.

Il ritorno sul palco è salutato con un’ovazione ed il lato “mistico&sensuale” della serata è attraversato da una bella versione, solare ed aderente all’originale di Be my baby, indimenticato hit delle Ronettes che Patti canta in puro stile pop, pur con il suo inconfondibile timbro di voce e con la grinta che le si addice e che ci trasporta nella dimensione, profonda e potente di People have the people, dedicata a suo marito Fred “Sonic” Smith ed al suo incombente compleanno (avrebbe compiuto sessant’anni il 13 settembre) il brano conclusivo del concerto. People have the power non è una canzone ma una dichiarazione d’intenti che da oltre vent’anni la Smih fa risuonare nelle orecchie e, si spera, nei cuori dei suoi appassionati estimatori.

Più che una canzone pare un proclama declamato con la forza e l’intensità di chi immagina di avere la possibilità di fermare il tempo, di condurre un agguato ai suoi danni, di fermarlo e domarlo. Così non è, così non sarà mai, ma la vittoria non è nel riuscire ad esaurire questo compito bensì averci provato…

L’ora è oramai tarda ed i bravi musicisti che hanno accompagnato l’artista di Chicago lasciano il palco perché lei si goda l’applauso tutto per sé. Lenny la osserva con tenerezza protettiva, come probabilmente fece la prima volta che la incontrò. Lei, comunque, sa che la strada non è ancora finita e lotterà perché si capisca “che la gente ha il potere di liberare il mondo dagli stupidi…”.

E Luca Lanzi (chitarra acustica e voce), Sauro Lanzi (fisarmonica), Fabrizio Morganti (batteria), Massimiliano Gregorio (basso), Andrea Petermann (violino), Riccardo dellocchio (chitarra elettrica, slide), La casa del vento, insomma, sono d’accordo con Patti Smith & Lenny Kaye…

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In dettaglio

  • Data: 2010-09-12
  • Luogo: Triennale Bovisa, Milano
  • Artista: Patti Smith e Casa del Vento

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