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Quando si dice che qualcosa nasce dal “basso”, possiamo pensare subito a due cose. La prima è che dalle quattro corde del basso, dalla ritmica, può nascere una canzone (e gli ...

Cramps

Cramps Night

CRAMPS... ovvero           Come      Raccontare Artisticamente Milano Primi Settanta

 

 

           È vero, un pizzico di delusione c'è stata. L'unica di una serata indimenticabile. Parliamo del fatto che un evento del genere, al PalaSharp di Milano, meritava certamente un numero di persone maggiore. Una serata dedicata alla CRAMPS nella quale alcuni degli artisti che hanno militato in questa eccellente etichetta discografica hanno dimostrato d’essere degli straordinari e, ancora oggi, visionari musicisti. Eppure il tavolo musicale preparato da Claudio Trotta della BarleyArts (che ha curato tutta la programmazione musicale della Festa Democratica di quest’anno a Milano) era imbandito davvero bene: Claudio Rocchi, Eugenio Finardi, AREA.

Un terzetto artistico differente nello stile, nella carriera, nelle modalità di approccio artistico che potremmo liberamente interpretare come visionario Rocchi, rock-cantautorale Finardi, musica del mondo e free jazz gli AREA. Ma ogni etichetta sarebbe un minus per questi artisti che nel corso della loro carriera hanno dimostrato, in differenti momenti (epoche, verrebbe da dire), che avevano le idee chiare da sempre ed anche nella loro giovane età, ed incoscienza artistica, erano già interiormente ed integralmente formati al verbo dell’originalità. Vederli sul palco è stato certamente un ritorno al passato ma, anche, l’innegabile consapevolezza d’avere a che fare con artisti di spessore superiore.

Un concetto che aveva ben capito fin da subito Gianni Sassi (qui in una foto del ’79, intervistato da Renato Marengo), co-fondatore insieme a Franco Mamone e Sergio Alberghoni della Cramps. Sassi era quello che si occupava principalmente della parte artistica e se questa sera al Palasharp possiamo raccontarvi della carriera di questi, come di altre pedine centrali della musica italiana, lo dobbiamo a lui e alle sue cocciutaggini, a quella sua voglia di trovare strade nuove e nuovi artisti. 

Ma torniamo alla serata Cramps-Night, aperta da Claudio Rocchi (qui in una foto di qualche anno fa), circondato da chitarre e lumini che davano al palco riverberi di lontane serate, magari ai bordi di un prato, su un palchetto perso nel nulla con attorno tanti ragazzi che si lasciavano cullare dalle parole, sempre morbide, aggraziate e “pedagogiche”, elargite dall’artista milanese. Rocchi inizia il suo set (purtroppo breve) con Alchimia, nuovo brano giocato sui contorni di una voce ancora gradevole e suggestiva ed il suo aperto della chitarra acustica. L’andamento è morbido e la voce pare davvero voglia cullare il pubblico che ascolta come rapito le parole della canzone. La rana viene presentata facendo memoria dei 15 anni di esperienza che Rocchi ha vissuto nell’alveo della religione induista della quale si era fatto fiero sostenitore e seguace (ricordo che il medesimo credo ha seguito Paolo Tofani, tutt’ora vicino al mondo dell’induismo). La canzone si dipana come un sorta di favola tratta dai libri dei Veda, le principali scritture della religione induista e rappresenta una sorta di apologo sul senso della vita. Anche in questa canzone la voce ed il suono della chitarra danno il clima del tempo trascorso…

E superato il silenzio dell’ascolto parte una grande applauso all’apparire sul palco di Patrizio Fariselli che si sistema al pianoforte ed inizia a levigare le note de La realtà non esiste, canzone magica quando venne scritta e presentata - ormai 40 anni fa - ed ancora capace di incatenare la mente ed il cuore di tutti coloro che seppero cercare e trovare, nel senso di quel testo, una sorta di pace interiore e pacificazione con il mondo: politicamente convulso allora, maledettamente straziato oggi. Le parole si srotolano lente ed incisive mentre le note del pianoforte di Fariselli volano oltre la fantasia, verso un mondo sempre sconosciuto: quello dell’interiorità di ciascuno di noi. Ad accompagnare Rocchi sul palco arriva un milanese doc, Eugenio Finardi, stessa classe anagrafica di Rocchi, stessa capacità di essere originale in un tempo in cui essere artisticamente spiazzanti non era, spesso, pagante. Ma il coraggio e la consapevolezza dei propri mezzi hanno ben lavorato per lui e quando le note de La tua prima luna si materializzano dalla chitarra di Rocchi ecco apparire come una sorta di visione che ci riporta al tempo in cui i sogni potevano diventare realtà. Non è avvenuto ma, forse, in molti sapevano che non poteva accadere, non sarebbe accaduto ma, nonostante ogni ragione, ci hanno creduto. E quando la voce di Finardi incontra la sua strofa “hai pochi soldi/sai bene domani…”, sono in molti a rimpiangere la propria gioventù ma, insieme, a gioire per avere cercato di dare un senso a quel momento della propria storia, alla propria vita.

Il tempo di spegnere gli applausi e salutare ed a sostituire Rocchi sul palco arriva il gruppo rock che ha seguito Finardi nel suo recente tour elettrico: due chitarre elettriche, basso e batteria, violino e mandolino, tastiere. Un bel gruppo che sa spaziare dal rock, al blues, al garage con grande versatilità e determinazione. Eugenio esordisce ricordando al pubblico che “all’inizio volevamo fare musica popolare intensa. Volevamo contribuire alla rivoluzione..che non è arrivata…” e subito parte una vigorosa versione di Saluteremo il signor padrone, uno dei primi brani della canzone popolare rivisitati in chiave rock (qui sotto una foto di Finardi a metà anni Settanta).

Esercizio forse di normale amministrazione, oggi, rivoluzionario allora. E la canzone tiene alla grande ed, anzi, sembra, trasformata e rinvigorita dalla cura “generazionale” che la band le riserva, con la chitarra di Giovanni Maggiore che corre come un treno ad alta velocità, facendo brillare le note della sua Gibson Les Paul, color ocra e di antica fattura.

Finardi è visibilmente soddisfatto della resa della band e gli occhi brillano di quella passione mai abbandonata. Se solo avessi, anch’essa dal primo album, è un’incursione nel rock blues caldo e potente, oscuro e torrido. Un gran bel lavoro delle chitarre elettriche sostiene le sonorità della canzone che, così “vestita”, non risente delle intemperie del tempo…Accolte da un suono elettrico delicato e suadente le parole de Le ragazze di Osaka sanno regalare un momento di soave serenità che Finardi canta con l’ispirazione che da sempre lo sorregge e le atmosfere del testo dipingono sembra possano apparire davanti a tutti i presenti. Il suono del piano suonato da Paolo Gambino accompagna le parole di Non è nel cuore, altro delicato tassello dell’inizio carriera dell’artista milanese. Ora le chitarre sono asciutte e le parole arrivano lievi, aprendo lo scrigno della memoria di coloro che c’erano, di coloro che speravano, di coloro che si illudevano, di coloro che rivedono, nell’arco della canzone, la propria, irripetibile, gioventù.

A “spezzare” il ritmo degli esordi finardiani, arriva un bel blues pieno di pathos e sudore. La band gira bene intorno alla voce del suo leader che trasuda amore e passione per questo genere musicale, un feeling che è sempre stato nelle sue corde artistiche fino ad omaggiarlo con l’album “Anima blues”. Arriva poi il momento di una canzone che personalmente amo molto ma che Finardi non propone spesso in concerto: La canzone dell’acqua, che scivola lieta e lieve tra le note delle tre chitarre acustiche (suonate da Finardi, Maggiore e Paolo Zanetti) che ne accompagnano il testo. I suoni sono morbidi, aperti, delicati e ben si adattano al testo che andrebbe letto/ascoltato con la dovuta attenzione per la finezza e i suoi richiami generazionali. Così come andrebbero ascoltati e “studiati” con attenzione tutti i testi di Finardi troppo spesso snobbati a favore di “poeti”, di maggiore (o presunto tale) blasone…ma questa è un’altra storia.

Continua lo spettacolo di Eugenio con Oggi ho imparato a volaree Non diventare grande mai, brani che si succedono e si integrano tra suoni di chitarre acustiche country style, fino all’assolo di Maggiore che con la sua Gibson conferma la sua tecnica sempre ben dosata e mai ostentata. Dopo il lungo applauso, ecco il ritorno sul palco di Fariselli, che assiso davanti alla tastiere attacca le note da piano elettrico di Diesel, brano di cui scrisse la partitura musicale.

Quello che colpisce nelle note della canzone è la capacità d’essere ancora attuali, vive, mercuriali. Note che saltano e brillano nell’oscurità, note che ti attraversano lasciando i nervi scoperti. Note che si uniscono ad un testo di straordinaria efficacia visiva che, a distanza di tanti anni, riesce ad essere ancora realistico e plausibile. Fariselli stupisce, con la sua versatilità musicale, tutti i presenti ed un radioso e rapito Finardi ne segue le evoluzioni sulla tastiera. Quando parte l’incipt de La radio è il segnale che “la festa finardiana” sta per terminare. Anche questa canzone arriva da una memoria lontana eppure siamo consapevoli che non ci abbia mai abbandonato e che rappresenti, per molti, una sorta di colonna sonora dei giorni migliori. Il finale è affidato ad Extraterrestre, altro formidabile quadro di vita interiore degli ani ’70 (perché, oggi no…?). Il suono è avvolgente, colorato, brillante; la voce ricercata, l’atmosfera adeguata. Finisce in un grande applauso, sentito e felice, con Finardi piacevolmente soddisfatto del lavoro della band (composta dai musicisti che l’hanno seguito nel tour elettrico). Gli assenti si sono persi una bella occasione per divertirsi, ricordare, rallegrarsi.

Anche perché, dopo il set di Finardi, sul palco sono saliti “quei” tre musicisti che si portano a spasso, con grande coerenza, e dignità, il marchio di fabbrica denominato AREA International Popular Group. Patrizio Fariselli, Paolo Tofani, Ares Tavolazzi, coadiuvati dalla batteria di Walter Paoli, sono uno straordinario sodalizio musicale che è impossibile incasellare in una matrice musicale. Pure orfani di Demetrio Stratos e Giulio Capiozzo, questi magnifici musicisti riescono a travalicare spazio e tempo, mode e situazioni, portando ogni volta l’ascoltatore in un mondo sonoro nuovo e sconosciuto nonostante ascolti decennali dei loro brani. Geniali, apparentemente anarchici, rigorosi, precisi, funzionali al suono complessivo immaginato e creato, destabilizzatori, “dinamitardi” delle note e delle emozioni. Questo ed altro sono ancora oggi gli AREA e su queste rotaie si è incanalato il concerto a cui hanno dato vita che ha avuto un prologo attraverso la chitarra (una chitarra auto-costruita a doppio manico), effettata, suonata da Tofani che ha regalato alla platea un quarto d’ora dei suoni più disparati attraverso una sorta di improvvisazione costante anche se, conoscendo il talento di questi musicisti, il dubbio che si tratti di improvvisazione è molto forte. Alla suite si “aggancia” il basso di Tavolazzi che dialoga, in maniera molto particolare e poco invasiva, con la chitarra di Tofani. Il risultato è un incrocio tra chiaro ed oscuro che lascia nel silenzio e nell’ammirazione. Terminato quello che potremmo chiamare prologo arriva il momento di note “conosciute” anche se le stesse, così come sono presentate, sembrano provenire dal futuro.

Suggestivi fraseggi tra gli strumenti, note che viaggiano tra autostrade stellari, straordinario bailamme sonoro che trafigge ogni cosa per una versione tenebrosa ed efficace di Arbeit Macht Frei che a 35 anni di distanza buca ancora la psiche. Musica affascinante, musica difficile, musica da assimilare, musica “oltre”, musica totale e potente che avrebbe fatto impazzire il sublime Miles Davis se avesse conosciuto questi musicisti nei giorni della loro gioventù. Dopo avere lanciato questo assaggio arriva il momento di Sedimentazione, esperimento sonoro in cui è stato condensato, in 1’ e 20” il repertorio del gruppo (a lato una storica foto del gruppo al completo). È una sorta di suono pulsante e diretto, dodecafonico, potente oltre il wall of soundspectoriano”, anche un po’ inquietante, che arriva come una valanga sul pubblico attonito che non riesce a capire se è sufficiente rimanere annichiliti e silenti oppure applaudire per quella sorta di treno sonoro che li ha appena attraversati…E dopo questo shock si ritorna a sonorità più plausibili, ripartendo da Cometa rossa, che si apre con il suono della tastiera simil mini moog di Fariselli, ricamatore di note senza sosta, ad aprire la strada al ritmo del basso e della batteria a cui si aggiunge l’acustica di Tofani.

Un grande brano che rende però “visibile” la mancanza della voce, inimitabile, di Stratos di cui, pure, sentiamo la presenza del suo spirito sul palco. Il pianoforte è impagabile e conduce, con la velocità di un caicco greco, la rotta di una nave sonora di straordinaria bellezza ed agilità. Nervi scoperti è una sorta di viaggio, a responsabilità illimitata, nel free jazz più dionisiaco; il suono è avvolgente e costruisce una vera e propria tempesta sonora a cui vengono assoggettati gli spiriti della musica. Le note impazzano per ogni dove e l’unica risposta a questa “immaginifica violenza” è lo stupore dei presenti, ammutoliti da tanto impeto e potenza sonora. Si apre con una antica melodia greca del II° secolo il capitolo di Gerontocrazia nel quale è possibile ammirare tutto il virtuosismo che scaturisce dalla mani esperte di Fariselli che pare scriva su un foglio di carta bianco sul quale appaiono, per magia note e suoni. Vedere questi movimenti è uno spettacolo nello spettacolo e tutta l’atmosfera che vi si respira è come magica, ricca di pathos e suggestioni, di mirabolanti immagini e di raggi di luce che arrivano a toccare la fantasia di ciascuno dei presenti che non riescono neppure a riaversi e sono già immersi in Elefante bianco, un introduzione nel mondo dei suoni balcanici che la musica italiana avrebbe incontrato oltre vent’anni dopo la pubblicazione di “Crack!”, album su cui questo brano venne pubblicato. Ritmi dispari, suoni che sembrano tentacoli di polipi, atmosfere in continuo movimento: un caleidoscopio di suoni senza inizio e, quasi, senza fine.

Non poteva mancare, ovviamente, Luglio, Agosto, Settembre (nero) che implacabile arriva a dare il segnale che il concerto sta terminando. Certo, la voce di Demetrio è nell’empireo ma i musicisti fanno il diavolo a quattro per sostituirne l’essenza. La chitarra di Tofani è vivida, la sezione ritmica è imperiosa, il pianoforte/mini moog di Fariselli sono un coacervo di emozioni e, in parte, i suoni cercano di sostituire la voce di chi non c’è più. Il suono è intenso, vivo, sanguigno, battagliero, trascinante, indomabile e si inerpica verso la cima della vetta, il finale, con un tumulto forte del cuore. Erano musicalmente avanti allora e sono avanguardia ancora oggi. Ma dopo di loro il diluvio…

Finardi li osserva, ai piedi del palco, mentre stanno completando il brano e dalla sua attenzione e dal suo sguardo si comprende la sana ammirazione per questi straordinari musicisti e poi, via sul palco anche lui a chiudere la serata e la parola ritorna a prendere possesso con le note ed il testo di Gioia e rivoluzione che Finardi canta con sentimento. Ci piace pensare che negli occhi e nella voce di Eugenio, in quel preciso momento, scorresse il ricordo di quell’amico che lo condusse da Gianni Sassi, alla CRAMPS Records, spendendo buone parole per lui. Demetrio aveva ragione, Eugenio si è meritato tutto (ma forse non il dovuto…). Finisce in allegria ed in festa con il pubblico che canta le parole della canzone e la memoria di ciascuno che si ferma ai momenti più belli della gioventù. Ci abbiamo provato, non ci siamo riusciti ma, almeno, il sommo poeta mi perdoni, non abbiamo vissuto “come bruti ma per seguire virtute e canoscenza…”. E ancora continuiamo a farlo.

Rosario Pantaleo      

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In dettaglio

  • Data: 2011-09-07
  • Luogo: Cramps
  • Artista: Cramps Night

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