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Giorgio Ciccarelli

Before and after...

Giorgio Ciccarelli, milanese, suona la chitarra da quando non aveva ancora vent’anni (in realtà da ben prima dei vent’anni) e l’anagrafe ci conferma che, proprio quest’anno, ne ha compiuti cinquanta. In occasione di questo passaggio, così importante, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lui ed abbiamo scoperto che prima, e dopo…

Quando e perché hai scelto di suonare la chitarra ed in quale momento hai deciso che la tua passione, oltre che a rimanere tale, sarebbe potuta diventare una vera e propria professione? Quali erano, all’epoca, gli artisti ed i generi musicali che consideravi di riferimento?
La mia casa è sempre stata piena di musica e, nonostante la mia famiglia fosse tutt’altro che benestante (mio padre faceva il fattorino e mia madre la commessa in un negozio di chiusure lampo), i miei genitori erano alquanto inclini ad assecondare le passioni musicali di mio fratello, che, essendo di 5 anni più vecchio di me, aveva gioco facile nel convincermi che una chitarra od un organo Bontempi fossero i regali più adatti a noi (lui…) per un felice natale. Quindi, avendo a disposizione una chitarra, verso i dieci/dodici anni mi sono messo a strimpellare in completa autonomia ed in regime da autodidatta, ascoltando quello che mi piaceva e cercando di riprodurlo.
I risultati iniziali non sono stati molto incoraggianti, forse perché cercare di riprodurre le canzoni dei Beatles o dei Queen, (i miei riferimenti a quell’età) da autodidatta non è la cosa più semplice del mondo, per cui mi sono buttato sul fingerpicking di Stefan Grossman, John Renbourn, John Fahey, ecc... Anche quella era roba per niente facile, ma almeno c’erano le tablature da seguire. In Italia vivere di musica, di un certo tipo di musica, è quantomeno improbabile e le motivazioni sono molteplici, ma bisogna essere chiari su questo. Nella mia esperienza, quelli della mia generazione che sono riusciti a vivere di musica con il proprio progetto, hanno potuto farlo perché avevano alle spalle una sicurezza finanziaria che permetteva loro di dedicarsi completamente alla causa. Ovviamente, devi avere anche e soprattutto una buona dose di talento, perché senza quello non vai da nessuna parte anche se sei figlio di Agnelli (quello della Fiat intendo!).  Io ho sempre lavorato, facendo quei lavori che inizi alle nove e finisci alle sei, ma ad un certo punto, nel 1995, una serie di eventi tra cui la morte di mio padre, mi hanno portato a riflettere su ciò che volevo veramente. Quello è stato il momento in cui ho completamente rivoluzionato la mia vita, mi sono licenziato, e mi sono buttato a capofitto nella musica: ho fatto un corso di fonico, ho collaborato a destra ed a manca mentre portavo avanti i Sux!. Nel 1999 poi, gli Afterhours mi chiesero se volevo accompagnarli nei live come polistrumentista, per il tour di Non è per sempre ed allora, in un breve spazio di tempo, ho capito che forse avrei potuto farcela. Certo, tenevo i piedi in diverse scarpe, ma tutte mi portavano nella direzione giusta e questa per me era la cosa più importante.

Verso la metà degli anni ’80 hai incominciato a suonare con i Colour Moves, poi hai contribuito a fondare i Sundowner e gli Echidna, hai collaborato con i Carnival of Fools ed infine con i Six Minute War Madness ed i Volwo. Potresti raccontarci qualcosa riguardo a queste esperienze e sul se, e come, abbiano contribuito, singolarmente, a formarti come musicista?
La mia “carriera” musicale è sempre stata condotta lungo due binari: il primo portava avanti il mio progetto, Colour Moves, Sundowner, Sux! ed infine Giorgio Ciccarelli. Sul binario numero due viaggiavano le collaborazioni, i progetti alternativi; gli Afterhours sono un caso a parte perché sono partiti sul binario 2 per poi scavallare sul binario 1bis; peccato non essermi accorto che fosse un binario morto, sul quale mi sarei schiantato. Tutti i nomi dei progetti che hai fatto hanno sicuramente contribuito a formarmi come musicista. Ce ne sono stati tanti altri, magari meno conosciuti, ma che hanno (anche loro) concorso in maniera decisiva a modellarmi come musicista. In particolare, per rispondere alla tua domanda, i Colour Moves sono stati la band che più ha lasciato un segno su di me, e da cui ho appreso il significato dell’essere una band. Tutti contribuivamo alla stesura dei brani, in maniera molto democratica, con rispetto reciproco, c’era uno scambio continuo tra di noi e nessuno aveva velleità da leader. Devi pensare che io avevo diciotto anni quando sono entrato nel gruppo, e mi confrontavo con gente di tre/quattro anni più anziana di me, ragazzi autonomi ed affamati di musica: loro mi passavano tutto ed io assorbivo quel tutto, proprio come una spugna. Negli anni a seguire non ho mai più provato quella sensazione, quel senso di condivisione non solo di vita, ma anche di progetto che, sostanzialmente, credo si possa trovare solo tra amici, ed in giovane età. Dai Carnival of Fools ho appreso quello che ci si può immaginare quando si parla di “sesso droga & rock ’n’ roll”. Sono entrato in formazione nell’epoca di Max Donna alla batteria (che avrei ritrovato poi negli Echidna), Andrea Viotti alla chitarra e, ovviamente, Mauro Ermanno Giovanardi (per noi da sempre Joe) alla voce. Ecco…diciamo che di quel periodo ricordo davvero poco o nulla, ed anche confrontandomi successivamente coi i miei compari di allora, ne esce davvero poco. Ricordo però il concerto fatto a Milano, a Brera occupata, e le aperture fatte ai Beasts of Bourbon al Bloom di Mezzago ed allo Slego di Rimini, tutte esperienze decisamente “forti”. Ah, poi ci fu la dèbacle di quando fummo invitati anche noi a suonare a New York insieme ai Ritmo Tribale ed agli Afterhours: ancora oggi non ho ben capito il perché non si sia andati, ma credo sia stato per una questione di soldi: noi Carnival non eravamo ricchi di famiglia e dunque non potevamo permetterci i soldi del biglietto aereo. Con i Sundowner ho affinato e messo a punto il mio stile chitarristico e il mio modo di scrivere. Abbiamo fatto solo un disco, ma tanti concerti, culminati con le aperture a Roma ed a Rossano Veneto nei concerti dei Thin White Rope. Anche gli Echidna sono stati un’esperienza piuttosto psichedelica (come lo furono i Carnival); qui, in qualche modo, ho ritrovato lo spirito di comunanza di cui parlavo prima con i Colour Moves; eravamo tutti al servizio delle canzoni e la cosa che più ho imparato è stata l’attenzione e l’importanza data ai testi. Ho finalmente capito che non aveva più senso per me cantare in inglese, cosa resasi ancora più evidente ai miei occhi e alle mie orecchie quando ho collaborato con Giancarlo Onorato alla realizzazione di tre brani finiti sul suo disco Io sono l’angelo. Con i Six Minute War Madness ho fatto una stagione di concerti, suonando gli organi, per promuovere Full Fathom Six (il loro ultimo album) ed anche questa esperienza mi ha dato molto, così come quella con Pasquale De Fina nei Volwo. Sai, entrare in un combo già collaudato con dinamiche precise, ti fa sempre crescere e, se sei una persona intelligente, riesci a tramutare in consapevolezza costruttiva tutte queste esperienze. Tutto ciò succedeva in una  Milano davvero differente, con una scena musicale veramente pulsante in cui si muovevano persone, in cui ci si scambiavano esperienze e, giusto per farti un esempio di come eravamo incastrati allora, e per ricostruire una specie di albero genealogico di quella scena milanese, ti racconto che: il basso per andare a fare il provino con i Carnival of fools me lo prestò Alessandro Zerilli, allora bassista dei Ritmo Tribale e, di lì a poco, degli Afterhours. Nei Carnival of Fools suonava Max Donna già batterista negli Afterhours ed in futuro negli Echidna. Ah, beh, il cantante dei Carnival of Fools era Mauro Ermanno Giovanardi. Nei Sundowner, suonava Marco Magistrali che poi suonò nel primo disco dei Carnival of Fools. Sempre nei Sundowner ha suonato Fabio Magistrali, diventato poi il fonico del Jungle Sound Station di Milano e che avrebbe poi registrato dai Karma, ai Sux!, passando per Afterhours e Ritmo Tribale. Il produttore artistico del primo disco dei Colour Moves era Paolo Mauri, finito poi a suonare il basso negli stessi Afterhours, nonché uno dei produttori più ricercati negli anni ’90. Poi, per un certo periodo, Paolo Cantù, già chitarrista negli Afterhours, è passato per i Sundowner, prima di mettere in piedi i Six Minute War Madness.  Ecco i Six Minute, con Daniele Misirliyan e Massimo Marini (futura sezione ritmica dei S.M.W.M.); andammo a fare una prova con Manuel (Agnelli) che, all’epoca, stava cercando elementi per ricostituire gli After dopo l’abbandono di Cantù/Girardi/Olgiati. Insomma, come vedi, ci si conosceva tutti e tutti ci muovevamo nella stessa direzione, magari un po’ confusa, ma con una voglia ed una determinazione nel fare cose, nel suonare, davvero notevole, soprattutto se paragonata al vuoto pneumatico che trovo oggi nel 2017.

Nel 1996 hai fondato i Sux! con i quali hai pubblicato 4 album. Che tipo di esperienza è stata e, considerando anche i buoni riscontri ottenuti dalla critica, come mai è stata accantonata?
Ragionando a posteriori Sux! è stato il progetto nel quale più mi sono rispecchiato ed identificato, se possibile anche più dell’attuale che porta proprio il mio nome. E’ stata per me un’esperienza fondamentale, cresciuta e sviluppatasi in un momento particolare della mia vita, in cui avevo deciso di puntare tutto sulla musica, anche a costo di vivere di “stenti”, per cui mi sono dato anima e corpo al progetto e quello che si sente nei dischi dei Sux! sono proprio la mia anima ed il mio corpo. Musicalmente parlando credo che, con quei quattro dischi, io abbia messo davvero a fuoco la mia cifra stilistica musicale, quella che poi ho anche portato dentro gli Afterhours. Nel 2006 ho deciso che gli After sarebbero diventati, da quel momento in avanti, il mio progetto principale, quello a cui darmi, come avevo fatto prima, “anima e corpo” ed in cui buttare tutte le esperienze maturate fino ad allora, per cui i Sux! sono stati, per così dire, congelati. Sempre ragionando a posteriori, e guardando come sono andate le cose, quello fu un errore fatale perché, quando si è verificata la rottura, mi sono trovato senza alcun paracadute, ne’ progettuale, ne’ tantomeno finanziario.

Come si sono evoluti, negli anni, il tuo equipaggiamento ed il tuo suono? Quali chitarre hai utilizzato ed attraverso quali effetti hai definito il timbro, aspro, a tratti quasi “noise”, che ti contraddistingue? Rispetto agli inizi, ed ai primi dieci, vent’anni, cosa è cambiato nella tua strumentazione e quale è, ad oggi, il set up che preferisci utilizzare?
Inizio col dirti che, in vita mia, non ho mai usato amplificatori a transistor, ma ho sempre cercato e posseduto amplificatori a valvole. Tralasciando la strumentazione che avevo da ragazzino ed iniziando dalla mia prima esperienza importante, direi che sono partito con un colpo di fortuna, perché il batterista dei Colour Moves aveva depositato in cantina un Fender Bandmaster valvolare degli anni ’60 che, associato alla mia Fender Stratocaster del ’79 di allora, produceva un gran bel suono. Il 1985 era l’epoca degli Smiths, dei Cure, degli Echo & the Bunnymen, dei Sound, per cui i pedali che usavo maggiormente erano chorus, phaser, delay, e l’immancabile distorsore. Negli anni a seguire ho usato con estrema soddisfazione, oltre che allo stesso Bandmaster, una testata Marshall Artist del ‘73, il Caliber 22 della Mesa Boogie, l’incredibile Mark IV, sempre della Mesa Boogie, ed infine ho usato moltissimo, soprattutto dal vivo con gli Afterhours, una testata costruita a mano sul modello Plexi della Marshall dai ragazzi della Mad Cat, una vera bomba! La svolta vera però c’è stata quando sono entrato in possesso, nel 1991, della mia attuale chitarra, una Fender Telecaster del 1966 che, messa in un qualsiasi ampli valvolare, produce un suono davvero eccezionale. E’ una chitarra particolare perché è stata modificata, qualcuno dice violentata; hanno scavato nel legno per farci stare un pick-up PAF, e per questo il suo valore si è dimezzato, almeno per i collezionisti, mentre io, invece, non la cambierei con nessuna chitarra al mondo. A parte i dischi dei Colour Moves, in tutti gli altri in cui ho suonato c’è lei… Il capitolo pedali è veramente ampio, me ne sono passati per le mani (o meglio… per i piedi!) centinaia; ti dico solo che non ho mai potuto fare a meno di un distorsore valvolare della Hughes & Kettner il Tubeman, del Rat (un altro distorsore) e del Microsynth della Electro-Harmonix. Intorno a loro, nella mia pedaliera, è passato davvero di tutto.

Nel 2011 hai contribuito alla formazione del trio Maciunas, insieme a due membri dei Fluxus; come ti sei trovato nel collaborare con musicisti provenienti da un’esperienza di tipo hardcore/metal, e quanto di tuo sei riuscito a trasmettere al progetto?
Devi sapere che, per quanto mi riguarda, i Fluxus sono stati una delle band più importanti dell’intera scena musicale italiana. E per me non si tratta esattamente di hardcore/metal, o meglio, non si tratta solo di quello. Soprattutto parlando del loro quarto album omonimo (che io tra l’altro considero la vera e propria gemma della loro discografia), ci si trova dentro tutto, tranne che l’hardcore/metal. Uhm… pensandoci meglio, ha sì la forza dell’hardcore/metal, ma non i suoni e questo è stato il vero goal di quel disco: come fare metal con le chitarre acustiche… Vista questa premessa, capisci bene che, quando mi si è presentata l’occasione di collaborare con Luca e Roberto, non ci ho pensato due volte. Ne è uscito un progetto entusiasmante culminato con l’uscita di Esplodere Nel Sonno, un disco “da vedere” nel senso che, per la prima volta in Italia, un gruppo usciva con il suo primo lavoro non su cd, ma su dvd. Ogni pezzo aveva un proprio videoclip che formava, insieme a tutti gli altri, un vero e proprio film. Insomma un progettone che, quando è uscito, ha preso in contropiede molte testate che non riuscivano né a catalogarlo, né a recensirlo: alcune si sono addirittura rifiutate di recensirlo, perché la loro politica editoriale non comprendeva le recensioni dei dvd, denotando un’apertura mentale davvero minima. La distanza (io di Milano, loro di Torino) e varie difficoltà ad essa legate, hanno reso la vita del progetto, ed il suo proseguimento, molto complicati, per cui si spento, ma in maniera molto naturale. Musicalmente parlando i Maciunas li ho sempre sentiti come la sommatoria matematica tra Sux! e Fluxus, messa sotto radice quadra.

Sei tornato a lavorare con i Color Moves nel 2014, a distanza di quasi trent’anni dal vostro esordio: che tipo di esperienza è stata, quali le sensazioni e gli stimoli che vi hanno portato a riallacciare le fila di un discorso così distante nel tempo?
Negli anni ‘80 fare un disco era l’obiettivo finale, lo scopo per cui le band si mettevano insieme, il premio dopo anni di gavetta e non era facile arrivarci perché i costi di produzione (registrazione e produzione del supporto) erano proibitivi, per cui pochi ci riuscivano ed altrettanto poche erano le etichette discografiche indipendenti che investivano su di te. Noi ci eravamo riusciti, era uscito un 45 giri, varie e diverse partecipazioni ad altrettante compilation, insomma eravamo sulla buona strada, soprattutto perché ci credevamo. Poi le cose hanno preso una piega diversa ed ognuno di noi ha imboccato la propria strada. Ma dietro a quella manciata di canzoni edite, ce n’erano una vagonata pronte per essere registrate. Negli anni successivi ci siamo sempre tenuti in contatto fino a che, come regalo per celebrare il cinquantesimo compleanno del batterista, fu improvvisata una prova, e lì ci venne l’idea di riallacciare le fila della questione e chiuderla una volta per tutte rispolverando e realizzando quei famosi brani tenuti in formalina per più di vent’anni. Il patto tra di noi era chiaro: i pezzi dovevano uscire esattamente come li avevamo arrangiati allora, con i suoni di allora (avevamo ed abbiamo ancora decine di cassette C-90 piene di musica dei C.M.). Da lì in poi è stato tutto molto divertente: io, che non vendo mai niente, avevo la stessa strumentazione del 1985, gli altri, che avevano smesso di suonare da vent’anni, si sono fatti un mazzo tanto e si sono presentati in studio preparatissimi pensando di dover registrare come 28 anni prima e cioè… VIETATO SBAGLIARE!!!.. non sapendo che la tecnologia aveva fatto passi da gigante e che ora, saper suonare, non è poi così importante (sic…). Ovviamente io mi sono ben guardato dal dirglielo ed è per questo che il disco è suonato così bene. Alla fine è venuto fuori un lavoro del quale andare veramente orgogliosi e che, paradossalmente, suona moderno, visto l’affanno attuale di molti a riproporre cose dei “mitici eighties”.

Dalla reunion dei Color Moves è scaturita una nuova partnership artistica con il tuo vecchio amico Tito Faraci, musicista, scrittore, fumettista e paroliere: come vi siete reincontrati, da un punto di vista musicale, ed attraverso quale percorso avete deciso di collaborare di nuovo?
Al concerto del nuovo esordio dei Colour Moves avevamo invitato tutti i nostri amici di allora ed è stato un tuffo nel passato quasi commovente. Tra gli invitati non poteva mancare Tito, che frequentavo parecchio in quegli anni e che era, insieme a Matteo B. Bianchi, il responsabile della fanzine Anestesia Totale il cui numero speciale del 2015 era allegato al nostro disco. Ovviamente baci, abbracci e tanti ricordi: io non sapevo nulla della sua fama come sceneggiatore di fumetti, né tantomeno della sua carriera come scrittore, l’ho semplicemente ritrovato come il Tito di sempre.  Ci siamo rivisti successivamente e ci siamo ritrovati un po’ su tutto, sul modo d’intendere la vita, la musica, la politica… Quello per me era, tra l’altro, un momento un po’ particolare: era passato appena qualche mese dal divorzio con gli After e non l’avevo presa bene. Mentre scrivevo i testi del disco mi venivo a trovare sempre chiuso verso una direzione, sentivo il bisogno di avere un aiuto. Tito è stata la risposta

Il risultato di questa collaborazione è stato il tuo primo lavoro come solista, Le cose cambiano; un titolo che ha sicuramente un significato importante per te: raccontaci la genesi di questo lavoro, come lo hai impostato, strutturato ed infine realizzato e quali sono, se ce ne sono in particolare, i brani che secondo te lo caratterizzano di più.
La genesi è molto semplice: l’istante dopo l’essermi trovato senza band ho preso in mano le mie canzoni ed ho iniziato a lavorarle pensandole come facenti parte di un disco. Molte erano già pronte, alcune addirittura le avevo già proposte a Manuel per un eventuale nuovo disco degli After, altre sarebbero state composte di lì a poco. La cosa certa, per me, era il fatto che dovevo reagire in qualche modo e questo modo doveva essere la musica. In particolare, Le Cose Cambiano è uno dei primi testi che avevo scritto e che Tito mi ha aiutato magistralmente a sistemare: direi che è il brano più esemplificativo del mio nuovo corso e non poteva che essere il titolo dell’album.

Come ti è venuta l’idea di affidare ogni singolo brano dell’album ad un illustratore che ne desse un’interpretazione di tipo grafico? La scelta affiancare le immagini ai brani ha, in qualche caso, modificato la tua personale visione o percezione del pezzo che avevi composto, rivelandoti aspetti che non avevi magari considerato?
Per come si è proposto e per come ci ha lavorato Le Cose Cambiano è un disco anche di Tito Faraci: in realtà mi sarebbe piaciuto (e gliel’ho ho anche proposto) farlo uscire a due nomi, ma sarebbe stato complicato per varie e diverse ragioni. In ogni caso, l’idea di affidare ogni singolo brano dell’album ad un illustratore o ad un fumettista è stata sua, ed è stata un’idea geniale, intanto perché in Italia nessuno l’aveva ancora fatto e soprattutto perché era un’idea potente a livello artistico/espressivo e contribuiva a rendere unico proprio l’oggetto disco, dandogli un valore aggiunto che certamente non si poteva scaricare dalla rete. Per quanto mi riguarda il risultato è stato sbalorditivo: in alcuni disegni ho trovato visualizzata esattamente l’emozione che avevo cercato di trasmettere in quel pezzo; in altri ho scoperto una nuova visione, un nuovo punto di vista, diverso da quello che io avevo cercato di disegnare con la musica, ma altrettanto significativo. Poi, sai, un conto è quando qualcuno ti offre un’interpretazione propria del testo di una tua canzone, e ci sta, succede sempre; altra cosa è quando questa interpretazione ti viene fornita attraverso un disegno o un fumetto, e questo è stato davvero emozionante! Sono e sarò sempre grato a Tito per l’idea, e a tutti gli artisti presenti nel disco per averci regalato i loro disegni.

Hai iniziato a portare in giro il tuo nuovo lavoro insieme a Gaetano Maiorano alla chitarra, Nicodemo al basso e Camillo Mascolo alla batteria; poi hai scelto di proseguire solamente con Gaetano Maiorano, utilizzando chitarre elettriche, acustiche, tastiere, loop station e sequencer. Come hai vissuto il cambiamento dal suonare in una vera e propria band ad una situazione, il duo, in cui oltre a cantare hai più cose da “tenere sotto controllo”?
Con la band l’adrenalina è sempre a mille, la condivisione con i musicisti sul palco e con il pubblico in sala ha un che di animalesco, d’impulsivo, di selvaggio; dopo ogni concerto io sono madido di sudore, bagnato dalla punta dei piedi fino ai capelli. Però, pensandoci bene, mi succede lo stesso anche con il duo: devo solo stare un pelo più attento, perché non c’è il paracadute della band e non posso fare la supercazzola: se si sbaglia si sbaglia, e l’errore si sente ed è evidente. Devo dire che questa attenzione maggiore ha sviluppato in me una notevole consapevolezza di ciò che succede sul palco, consapevolezza che prima non avevo o che, quantomeno, lasciavo deliberatamente al caso, all’imponderabile.

Con quale spirito e con quale stato d’animo ti sei approcciato al ruolo di cantante e chitarrista, in sintesi di “leader”, della situazione musicale che hai creato con questo nuovo progetto?
Direi in maniera molto naturale: non ho sentito particolari differenze tra questo ruolo e quello che ricoprivo nei Sundowner o nei Sux! che poi era fondamentalmente lo stesso.

Come consideri la risposta del pubblico nei confronti di questa tua nuova “versione” solista e come hai vissuto personalmente questa tua nuova dimensione, soprattutto nelle esibizioni dal vivo?
Come ti dicevo prima, avendo già giocato nel ruolo di front man, sapevo quello a cui andavo incontro e sapevo che questo ruolo avrebbe portato con se gioie e dolori; un carico di tensione e responsabilità che non si può neanche lontanamente paragonare a quello vissuto come chitarrista o bassista. Non ce n’è: il cantante ha su di se il peso della riuscita o meno del concerto e di questo ero, e sono, ben consapevole. La reazione della gente nei confronti di questa mia nuova “versione” solista è stata un misto di curiosità e d’interesse, perché credo volessero vedere come se la sarebbe cavata il Ciccarelli da solo, ma anche di sorpresa e di incredulità, perché pochi si aspettavano di vedermi così a mio agio nel ruolo di performer. In buona sostanza direi che la risposta del pubblico, per quanto mi riguarda, è andata oltre le aspettative e credo che sia dovuto proprio al riscontro ottenuto il fatto che, ancora adesso, dopo che Le Cose Cambiano è uscito da un anno e mezzo, sono in giro a fare concerti.

Quali sono, ad oggi, i tuoi progetti futuri? Ti vedi ancora, in prospettiva futura, come membro di una band, oppure la tua dimensione solista ha modificato il tuo approccio alla musica e ti ha predisposto a privilegiare, in maniera rilevante, un percorso artistico più centrato su di te?
Uhm, mi rendo conto che i miei progetti futuri son sempre quelli, da trent’anni a questa parte…fare musica, fare canzoni, registrarle, farle sentire e suonarle di fronte ad un pubblico. Se con band o senza band è poco rilevante; soprattutto ho imparato a non fare progetti a lungo termine e ad essere consapevole che le cose cambiano improvvisamente, quando meno te lo aspetti. Per questo, in futuro, riesco tranquillamente ad immaginarmi sia come membro di una band, che come solista e, perché no, come hobbysta della musica.

Trent’anni di carriera sono davvero parecchi e lasciano, in una persona oltre che in un musicista, tracce importanti: chi era, trent’anni fa, Giorgio Ciccarelli uomo e musicista e chi è, invece, oggi? Quanto è rimasto dell’impeto degli inizi e  quanto, invece, è stato mediato durante il percorso che hai intrapreso?
Accidenti, per rispondere esaustivamente a questa domanda ci vorrebbero diverse cartelle di word, ma cerco di sintetizzare al massimo per non tediare te e i tuoi lettori iniziando da quello che non è cambiato in questi trent’anni e cioè il bisogno, fisico, direi quasi primordiale di fare musica, di esprimermi con la musica; ancora oggi, come trent’anni fa, quando prendo in mano la chitarra e faccio un mi minore, vengo risucchiato in un vortice e mi si aprono mondi… ma questo succederebbe, credo, anche se non facessi il musicista. Quello che è sicuramente cambiato è il posto occupato dalla musica nella mia scala di valori: a vent’anni era ai primi posti mentre ora, a cinquanta, di posti ne ha persi un po’. In mezzo c’è una vita, fatta di esperienze, di conoscenze, di rapporti umani, molti dei quali maturati nell’ambito musicale e che mi hanno fatto avere un punto d’osservazione privilegiato su questo mondo (quello musicale intendo). Ed è proprio per questo che, da anni, non lo frequento più: non mi si vede mai in giro, non partecipo mai ad un evento, cerco di starmene il più possibile alla larga da questo fantastico universo popolato da quelli che io chiamo i “diversamente arrivisti”, un mondo fatto di rapporti umani inesistenti, di leccaculo, di voltagabbana, di nani e di ballerine. Ecco, in questo senso ho trovato un’altra differenza direi sostanziale: a vent’anni anelavo a questo mondo, che in un certo senso mitizzavo, mentre oggi, a cinquanta, posso dire con certezza ed usando un eufemismo, che non rientra più fra ciò che cerco.

 

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