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Piero Brega

Dal Paradiso e ritorno...

Possiamo dire che Piero Brega è un camminatore o, per rimanere al nome della nostra testata, un navigatore. Per loro natura sono persone queste che attingono forza dal passato ma hanno bisogno d’essere lascaite libere di spaziare nel presente con tutte le sue contraddizioni, per capire se esiste un futuro e dove potrebbe condurci. Parlare con un artista come lui – via e-mail, in questo caso – non è immediato nè semplice, e non perché manchi di disponibilità ma perchè la sua esperienza meriterebbe spazi e tempi che purtroppo non possediamo. La nostra intervista, tra Canzoniere del Lazio, Carnascialia e il presente.


Innanzitutto che cosa significa essere «Fuori dal Paradiso» in questi anni «lacerati»?
Non è che un verso «Fuori dal paradiso sono caduto in terra», che dà il titolo alla canzone cui appartiene e al cd. Ma tu dici bene, sono anni lacerati, noi lo siamo, la nostra società e l’umanità e la terra lo sono. La felicità è possibile,  chi non l’ha intravista almeno una volta? Ma chissà se riusciremo a raggiungerla. Tutto ciò che avevamo: le certezze, le speranze, Tutto abbiamo perso, tutto abbiamo speso nel tentativo, ed è già qualcosa. Ma siamo ancora fuori dal paradiso, dissi. Oggi direi: la nostra barca è in fondo al mare, è rovesciata e l’acqua non è limpida.

Per la copertina del tuo ultimo album hai utilizzato un’immagine che utilizzò oltre trent’anni fa Claudio Rocchi. Un caso oppure un richiamo a momenti musicali (e sociali) ormai dimenticati dai più…? 
Non sapevo di copiare una copertina di Claudio Rocchi, ma se c’è un’assonanza sono contento. Ho trovato che la scelta dei grafici, arrivata dopo una intervista sulla mia poetica altrettanto impegnativa della tua rappresenta bene l’immagine di un arcaico poeta gettato a terra dalle stelle che gli cadono sulla testa.

Il tuo modo di porgere le canzoni è sempre garbato, morbido e diretto. E’ questo lo stile che ritieni essere maggiormente proficuo per il tuo repertorio?
Grazie degli aggettivi ma quello che senti nel cd è l’unico stile che ho. L’aggressività, la durezza sono spesso frutto della giovane età, e io, giovane, oserei dire per fortuna, non lo sono più, e per certi versi non lo sono mai stato. Se il mio modo è diretto è perché sono così anche nella vita di tutti i giorni. Non sono bravo a vendere il mio prodotto musicale e questo è un difetto, cerco e non trovo un manager, ma la mia capacità la metto tutta nelle composizioni nelle quali mi cimento con Adriano Martire o da solo, e anche rispondere alle tue domande è un’indagine, non un’esibizione per me, infatti è impegnativo. Per questo tardavo a scriverti, perché non ho il senso di ciò che è utile per me. Ma questa intervista mi sta già aiutando a capire che devo darmi da fare in questo senso e te ne sono grato.

Da “Come li viandanti”, album di notevole spessore artistico e di ottime partecipazioni strumentali, sono passati quattro anni. Se non sono indiscreto posso chiederti le ragioni di tanta “assenza”?
Di cd commerciali se ne fa uno all’anno, scrivere canzoni e tutt’un altro mondo e in realtà sono passati molti anni da quando ho iniziato a scrivere Monte Mario a quando l’ho inciso. Ogni canzone è a sé, deriva da un’esperienza, non si fa una canzone tutti i lunedi. E’ vero anche che a volte il mondo ti rapisce e sottrae tempo alla musica. Spero però che il vento cambi, spero di passare il resto del tempo che ho a scrivere e a suonare, sto già soffiando con tutte le mie forze in questa direzione.

La tua esperienza musicale è figlia, anche, di anni di lavoro con il Canzoniere del Lazio. Vuoi ricordarci qualche momento di questa esperienza e che cosa ha rappresentato per te, come artista, e per il contesto in cui ti sei trovato ad operare?
Col Canzoniere del Lazio ti ritrovi in un’autostrada che vai a suonare per qualcuno che ritiene utile la tua presenza, bella la tua musica, interessanti le tue parole, e tu non hai fatto altro che fare ciò che ti piaceva di più, affondare nella musica, riemergere felice e desideroso di raccontarlo a tutti a modo tuo, con il suono del blues, del saltarello, con il rock che ti piace e ti somiglia. C’è da impazzire di felicità. E infatti è quello che è successo.

Il Canzoniere del Lazio nacque, tra le altre motivazioni, con la volontà/necessità di fare conoscere e diffondere i germi della cultura popolare in un contesto storico in cui la musica e la canzone popolare venivano riscoperti da un pubblico giovane e desideroso di conoscere le proprie radici. Oggi come vedi l’attenzione nei confronti di questa realtà musicale, in particolare da parte dei giovani?
In sostanza la musica popolare non è semplice come sembra. La ricerca che fece il Canzoniere era musicalmente innovativa rispetto alla concezione  filologica che si aveva della musica popolare attraverso la ricerca degli anni sessanta. Questo confluiva in una riproposta del repertorio che ci risultava statica. Oggi si tende a riprodurre un ideale suono popolare, ma pur utilizzando un contorno di suoni cosiddetti etnici, c’è poco di innovativo. Per fortuna ci sono delle eccezioni. C’è ancora qualcuno che scava in profondità, ma in genere no. Stando così le cose mi sembra ovvio che in genere la musica popolare non suscita un grande interesse tra i giovani. Ad esempio la cosiddetta tarantella tanto celebrata a Melpignano non è che un saltarello. Parola di Giovanna Marini.


Tu, per età anagrafica e per le esperienze fatte appartieni, se mi è permesso, ad un’altra generazione. Come vedi, oggi, Roma ed il Lazio, rispetto alle modalità di ascolto e rispetto della musica e come giudichi la scena musicale romana di questi anni?
Allora il Canzoniere interpretava l’esigenza generalizzata di rinnovare il repertorio musicale della sinistra, il rito musicale era dentro al rito politico ed era più vitale se anche la politica era più vitale. E questo tutto sommato vale pure oggi. L’ascolto era più attento, prolungato nel tempo. Oggi è tutto più veloce, anche il tempo in cui la tua musica viene giudicata, vedo in chi ascolta un senso critico magari inesperto ma più vero. Ci sono una molteplicità di realtà di base che sono tornate a fare politica seppur in modo diverso rispetto ad un tempo; ultimamente abbiamo suonato per Nogas a Campo di Carne, contro l’istallazione del turbogas a Nettuno, alla Locanda Atlantide e altri posti a Roma, al teatro Ambra Jovinelli, alla Facoltà d’Architettura e all’Università La Sapienza, alla Woodstock dell’Onda. Il tratto comune mi sembra in miglioramento: fammi sentire che sai fare, che hai da dire, voglio farmi una mia idea. Questo vale per le cose nuove, delle vacche sacre non parlo.

Se possibile vorrei fare ancora un passo indietro per chiederti di parlarci di “Carnascialia” un album che giudico importante sia per l’ambito musicale che per la parte culturale. Ha rappresentato a mio avviso una sorta di inizio d’attenzione nei confronti della cosiddetta world music. Peccato che ad oggi non sia stato ancora stampa su cd…
“Carnascialia” fu un vinile e un gruppo musicale nel quale si avvicendarono musicisti e cantanti, io non ero certo il migliore. Era un progetto del giramondo percussionista Vivaldi e di Pasquale Minieri, grande melodista e arrangiatore che un giorno mi disse: “Piero, dobbiamo scrivere una canzone sulla tarantella, ma vista da dentro, vista da un tarantolato. Dovrebbe cominciare così: Mamma mia, mamma mia sono sull’orlo della follia…” trovò, Pasquale, una frase di chitarra tale che le parole seguirono a getto e in un paio di giorni scrissi il testo e andai in sala a inciderla che ancora non l’avevo cantata una volta tutta intera. Pasquale diceva che era ora di sciogliere i generi e cercare nel contagio, lui chiamava così la contaminazione musicale, un genere che contenesse i vari generi. La cosa di per sé è facile a dirsi, oggi, ma allora senza Minieri che conosceva bene i linguaggi musicali non sarebbe stato possibile.

Un ritorno al nuovo album per chiederti di parlarci di due canzoni che mi hanno particolarmente colpito: Acqua, con il suo incedere quasi salmodiante e Monte Mario, con forti suggestioni della memoria.
Grazie, parliamo del nuovo album, l’ultima creatura è sempre la più amata. E’ stato un lavoro massacrante, con Adriano lo abbiamo definito “sufficiente”, Adriano e io siamo di manica stretta. Gli strumentisti tutti grandi musicisti, Ne cito solo tre per non essere prolisso: Marcello Sirignano al violino, Massimo Bartoletti alla tromba e flicorno, Steve Cantarano al contrabbasso. Sentivo la responsabilità di tutto quel lavoro essendo con Martire i produttori artistici ed esecutivi, tutto dipendeva da noi, dalla musica, allo stile, alla ricerca dell’arrangiatore e dei musicisti, e qui devo ringraziare Orietta Orengo, l’oboista che m’ha dato una grossa mano. Così poi gliel’ho chiesta la mano e ora viviamo insieme. Scherzo, viviamo insieme, tra realtà e sogno, da trent’anni. Alcune canzoni sono nuove: Fuori dal paradiso, Luce verde, Marinaio senza mare, tanto per parlare di nostalgia senza tempo; invece Valzer di un momento  l’ho scritta con Giannattasio e Piazza all’epoca di Carnascialia. Rispondo alla domanda: Monte Mario contiene diverse storie che si mischiano: il ricordo di mio fratello, danzatore e coreografo, di me che mi sto per laureare in architettura, il lungotevere e una fotografia. Acqua è una poesia di Mimmo Parlato, che ci chiese di musicarla, ma la musica era già nelle parole e non abbiamo fatto altro che esaltare con poche note, possibilmente una sola, l’emozione che il testo ci comunicava.

Recentemente ti abbiamo visto ospite nell’ultimo disco degli Almamegretta. Come è nata questa collaborazione?
Nel 1995 Carnascialia e Almamegretta fecero una breve e fortunata tournée e rimasi sempre amico di Gennaro Tesone, il batterista, e quando mi chiesero di mettere parole e canto in un loro brano dissi subito di sì, ancor prima di sentirlo. Ascoltando la base musicale con Martire, pensammo che doveva contenere un canto ancestrale. Martire disse: “proviamo a sentire come suona con Da piccolo fanciullo che è una canzone antica del Lazio”. Faticammo non poco a quadrare la metrica del canto con il ritmo della base ma alla fine ce la facemmo e spedimmo indietro l’mp3 chiedendo ad Almamegretta di lavorare ancora per fondere meglio le componenti. Passarono alcuni mesi, ci sentimmo ancora, da Roma citando Totò e da Napoli citando Sordi, e poi finalmente ricevemmo una copia del master finale e ci complimentammo con loro e con Gennaro che aveva avuto l’idea.




(16/12/2008)

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