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Umberto Fiori

Il ritorno degli Stormy Six

 L’occasione era di quelle che non si possono perdere: il ritorno degli Stormy Six a Milano, con uno splendido concerto alla Camera del Lavoro di Milano, venerdì 1° aprile, ore 21.00, sciopero dei mezzi di trasporto incluso… Eppure c’era un mare di gente. La sala era completamente piena in ogni suo posto a sedere e decine e decine di persone hanno seguti il concerto in piedi. Un concerto pieno di passione, di grinta e di voglia di comunicare dove pezzi storici hanno fatto da supporto a tre nuove canzoni che verranno a far parte di un lavoro in preparazione con Moni Ovadia. Un concerto intenso, dedicato alla memoria di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi, due giovani della sinistra extraparlamentare milanese uccisi nell’aprile del 1975. Il primo da mano fascista il secondo travolto da un camion dei carabinieri nel corso di una manifestazione di protesta per la morte di Varalli. Altri tempi…? Forse, ma lo spirito di questo gruppo è rimasto indomito e così abbiamo pensato di fare qualche domanda ad Umberto Fiori che, a ben guardarlo, pare avere fermato il tempo…

Stormy Six: il nome di un gruppo che parrebbe appartenere al passato ma che poi, al’improvviso, raduna almeno 500 persone alla camera del lavoro di Milano, non proprio un ambito adatto per la musica. Come te lo spieghi?

Anche noi siamo rimasti piacevolmente sorpresi. Non tanto dal numero degli spettatori, quanto dal loro calore, dal loro entusiasmo, dalla qualità della loro attenzione. Evidentemente, qualcuno a Milano sentiva il bisogno di un’occasione musicale come questa.

 

 

Sul palco sembravate affiatati quasi come non vi foste mai lasciati. E’ una sensazione dettata dalle molte prove oppure la consapevolezza che quando si condividono progetti ed idee tutto diventa quasi automatico?

In questi anni le occasioni per suonare non sono mancate. E poi, certo, le prove per il nuovo lavoro con Moni Ovadia hanno contribuito a rimetterci in sintonia. Certi pezzi, comunque, è come se si suonassero da soli. O, diciamo, è come se loro suonassero noi.

 

 

Nel concerto del 1° aprile tu e Fabbri avete sfoggiato una invidiabile timbrica vocale. Potenza della vostra natura oppure anche voglia di sottolineare, con forza, che determinate liriche hanno senso quanto più arrivano forti e dirette a chi le ascolta?

Grazie dell’apprezzamento. Eravamo abbastanza in forma, avevamo voglia di cantare, e l’affetto del pubblico ha contribuito a farci “tirar fuori” la voce.

 

 

Nel corso del concerto avete proposto tre brani di un lavoro che state costruendo insieme a Moni Ovadia. Ci puoi spiegare quali sono le “intenzioni” di questo lavoro, se ne sarete coinvolti tutti come gruppo e se ciò darà vita ad un album?

Il Canto dei sarti ebrei della Wehrmacht, Il violinista sul tetto e Benvenuti nel ghetto (Cocktail Molotov)fanno parte di una serie di canzoni (una dozzina, per ora) dedicate alla rivolta degli ebrei del ghetto di Varsavia, avvenuta tra l’aprile e il maggio del 1943. E’ il primo episodio di resistenza armata contro i nazisti (in Italia, la resistenza sarebbe iniziata nel settembre dello stesso anno). Quando Moni ci ha proposto di lavorare a questo progetto, abbiamo accettato con entusiasmo: la rivolta di Varsavia è un capitolo glorioso non solo nella storia degli ebrei, ma direi in quella di tutti gli uomini che ancora tengono alla propria dignità, e non si piegano all’arroganza. Nel lavoro siamo coinvolti tutti e sei, naturalmente; Moni farà come sempre la parte del narratore, noi quella dei “cantastorie rock”, ma non è escluso che le parti si mescolino. Il disco si farà appena i pezzi saranno a punto. Già da quest’anno dovremmo cominciare a suonarli in concerto, forse anche con Moni, ma il debutto dello spettacolo vero e proprio è previsto per il 2013, nell’anniversario della rivolta.

 

 

Nell’ambito della discografia italiana siete gli unici che hanno realizzato un album sull’Unità d’Italia, seppure con occhio critico, e sulla Resistenza. Ciò è avvenuto anche grazie alla vostra storia politica oppure perché altri artisti hanno temuto e temono di “schierarsi” in maniera netta e critica con il proprio pensiero?

La nostra attenzione ai temi storici nasce dal desiderio di raccontare in una forma popolare episodi importanti che altrimenti resterebbero chiusi nei libri. Questo ha a che fare, naturalmente, con il nostro orientamento politico, ma anche con una naturale inclinazione all’epica, alla coralità. Quanto agli altri artisti, non voglio polemizzare: credo che nessuno sia tenuto a “impegnarsi”, soprattutto se non è nelle sue corde. Noi facciamo la nostra parte, tutto qui.

 

 

L’artista è un po’ un testimone del suo tempo. Dal vostro osservatorio come avete visto mutare il concetto di musica, di arte nel trascorrere del tempo e quanto i cosiddetti “anni di piombo” hanno sgretolato la voglia di esserci, di capire, di assumersi un ruolo anche militante, come pensiero critico, all’interno della società?

Negli anni ’70 (che non sono stati solo “anni di piombo”) la musica si era caricata, –soprattutto in Italia,- di significati sociali e politici, oltre che estetici. Il pubblico era molto vivace e aperto alle novità, il dibattito intensissimo. Noi abbiamo avuto la fortuna di incontrare pubblici anche molto diversi, da quello del paesino siciliano a quello del Teatro dell’opera di Amburgo, e questo è stato determinante nella nostra riflessione sulla musica e anche nella nostra pratica. Oggi mi pare che tutto sia molto più disperso, settorializzato. Per noi la svolta è avvenuta nei primi anni ’80, quando le nuove mode musicali, il clima politico del craxismo, l’atmosfera dolciastra del “postmoderno” hanno di colpo messo fuori gioco i valori che orientavano noi e il nostro pubblico. La ricerca formale, l’impegno politico, l’originalità, la coerenza intellettuale, erano diventati addirittura degli handicap. 

 

 

Nei vostri album “classici” ma anche in quelli da “L’apprendista” in avanti, dove avete costruito e proposto un importante discorso culturale e di stimoli sonori, mi pare che il centro del mondo sia rimasto l’uomo con la sua voglia di riscatto. Se così fosse, perché dare così tanta importanza a questa ricerca?

Il nostro lavoro, tanto nei contenuti quanto nelle forme, ha sempre avuto al centro un’idea di libertà e di resistenza. La lotta antifascista e la ricerca musicale “alternativa” hanno le stesse radici: il bisogno di autodeterminazione, di indipendenza, di dignità. Personaggi come Mordechai Anielewicz, l’eroe della rivolta di Varsavia del 1943, sono un esempio di come anche nelle situazioni più disperate si possa trovare il coraggio per alzare la testa.

 

 

Dopo di voi il diluvio o, forse, anche se con sonorità differenti, i Modena City Ramblers nella formazione storica ed i Gang, in particolare nella proposta teatrale de Il Paese della vergogna con Daniele Biacchessi. Perché ancora oggi l’arte ha paura di parlare delle nefandezze del potere…?

Come dicevo prima, non mi sembra il caso di fare il processo a chi non si “impegna”. Ognuno fa quel che può. E poi, l’arte può essere una denuncia del potere anche quando non ne parla direttamente: al di là dei suoi contenuti espliciti, un’opera autentica è sempre una rivolta contro la disonestà, la falsità, il conformismo.

 

 

Questa città pare schiava e vittima di un (o più) sortilegio dove l’immagine ed i denari, ancor più di un tempo, sono l’emblema del valore delle persone. Perché, e te lo chiedo come uomo di cultura, questi presunti valori sono ancora così egemonici?

Tutto è cominciato negli anni ’80, col craxismo e –poi- col berlusconismo. Anno dopo anno, soprattutto grazie alle tv di Berlusconi, si è imposto un anti intellettualismo che in Italia non aveva mai preso piede: persino il fascismo era più tollerante nei confronti della cultura. Il progetto era, ed è, tragicamente lucido: organizzare l’ignoranza endemica, base necessaria al populismo autoritario. Per questo la difesa della cultura –della ricerca, del confronto, della bellezza, della razionalità- è un passo fondamentale per opporsi alla miseria dominante.

 

 

Se dovessi spiegare ad un giovane presente al vostro concerto perché ascoltare Un biglietto del tram è un gesto che necessita attenzione perché può aiutarlo ad aprire i suoi orizzonti circa la storia patria, a che cosa gli diresti di prestare maggiore attenzione?

Nonostante faccia l’insegnante (o forse proprio per questo) non sono propenso a fare prediche o a imporre valori “dall’alto”. Sono convinto che l’arte, se è veramente tale,- non ha bisogno di essere “inculcata”: dovrebbe parlare da sé, e soprattutto lasciare libero l’ascoltatore di interpretarla nei modi e nei tempi che sono suoi.

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