Roberto Cacciapaglia
Da dove hai tratto l’ispirazione per comporre “Canone degli spazi”?
La musica per me coincide con la
ricerca, con un percorso di sviluppo interiore, è come se mi facesse da
specchio. Per questo lavoro in particolare mi sono ispirato alle regole di Pitagora. Egli non fu infatti solo
l’inventore delle tabelline, era un gran maestro che lavorò molto sul suono.
Pitagora faceva coincidere le leggi della musica con quelle dell’universo. Per
questo disco mi sono appoggiata a lui. Per comporre i miei brani io uso le
triadi, che sono degli elementi elementari, la base dell’armonia. Diciamo che
usufruisco dei cicli, in cui lo strumento solista rimane sempre al centro,
mentre l’orchestra ruota intorno ad esso, facendo delle fasce che vanno dal
pianissimo al fortissimo, dando vita a delle orbite, come quelle dello spazio.
L’orchestra diviene così come una sorta di costellazione che gira intorno, come
fossero onde planetarie. Lavorando sulla presenza del suono, per me diviene
quindi fondamentale l’uso dello strumento acustico. C’è il gesto, il suono e
l’intenzione, che vanno poi a toccare l’emozione di chi ascolta, creando una
bellissima alchimia. Ad ogni modo per me è importantissimo comporre immerso nel
silenzio.
Come e dove scrivi i tuoi brani?
Beh, solitamente qui nel mio
studio di registrazione dove ci troviamo ora, ma mi capita di scrivere della
musica anche per strada, in treno. Mi ricordo una volta che in un viaggio da
Milano alla Sicilia, ero davvero piccolo, abbiamo tirato giù le cuccette, e ad
un certo punto sono rimaste solo delle lucine nel buio del vagone e il
paesaggio che vedevo scorrere là fuori mi sembrava un pentagramma. Mi piace
molto comporre in treno, oppure in auto se vengo trasportato, con il mondo che
gira, che scorre davanti ai tuoi occhi e tu fermo, immobile, che osservi.
Suoni da molto tempo, ma come mai sembra che solo oggi la tua musica
stia in parte arrivando al grande pubblico?
In un certo senso diciamo che il
merito va dato a questi miei due ultimi lavori. Sono impostati verso la
comunicazione. Prima dedicavo molto più tempo alla ricerca e alla sperimentazione.
Lo faccio ancora, ma prima per esempio potevo stare fermo anche cinque anni
sullo stesso disco, era musica difficilmente di comunicazione. Prima usavo
anche i testi, ora non lo faccio più. Penso sia anche dovuto al fatto che i
tempi sono cambiati. Oggi c’è richiesta di musica di un certo tipo, di un certo
spessore. Non bastano più le canzonette che ti vengono propinate in radio, il
pubblico è un pochino stanco di questo. C’è desiderio di ricerca da parte della
gente, di musica che abbia un aspetto più diretto, una necessità di trovare dei
segni forti, dei poteri del suono. Storicamente la musica ha sempre coinciso
con la vita dell’artista , non è solo un prodotto.
Quale è l’emozione o il messaggio che avresti voluto trasmettere con questo
album ai tuoi ascoltatori e pensi di esserci riuscito?
La musica nella sua bellezza non
da indicazioni precise, non da ne immagini ne parole. Sentiamo il suono e da lì
nasce un’emozione sempre soggettiva che all’inizio è vuota e che poi ognuno
riempie come vuole. L’immagine o il messaggio non c’è, la musica parla da sé e
può arrivare sia al quindicenne che al ventenne che al cinquantenne. La musica ha un valore che va
oltre ogni cosa scibile e che soprattutto va oltre all’uso che ne viene fatto
oggi. Di certo la mia non è musica di sottofondo.
I tuoi brani sono stati usati anche per delle pubblicità. Non ti dà
fastidio a volte essere riconosciuto grazie a degli spot?
E’ talmente tanto quello che mi
torna che la musica in questo riesce comunque a rimanere integra. Se la usano a
servizio di un altro scopo ma le persone che mi chiamano e che magari hanno
riconosciuto il pezzo mi dicono certe cose, vuol dire che il pezzo è rimasto
integro, perché il suono va oltre. Se rimane la funzione iniziale allora ben
venga anche l’utilizzo degli spot. E’ una cosa difficile dare una miniatura di
una propria composizione per una pubblicità, per me è stata una grande palestra
dato che ci sono leggi di mercato ben precise. C’è da dire anche che in effetti
la mia musica è stata usata bene e con criterio.
Tu sei un grande amico di Franco Battiato. Che cosa ha portato nella
tua vita a livello personale e musicale?
Tantissimo. L’ho conosciuto a
sedici anni quando studiavo conservatorio e iniziavo ad intraprendere la
conoscenza dell’elettronica. Lui usava già la Vcs3, i sintetizzatori, cose che
in Italia ancora non c’erano e che usavano già i Pink Floyd. Ci siamo
incontrati e da lì io ho collaborato al suo disco “Pollution”, sono andato in
tour con lui. Siamo grandi amici, ci accomuna una passione che è come uno
specchio di noi stessi. Ha avuto il merito di portare attenzione su dei temi
che prima non erano così ascoltati. Lo si vede anche ai suoi live, dove la
gente che lo segue è molto aperta, sensibile, attenta alla spiritualità, alle
cose belle.
Com’è stato ritrovarsi precursore dei tempi, avendo usato per primo,
con Battiato, l’elettronica?
E’ stato interessante. Oggi viene
dato tutto per scontato. Io ho scritto “Sonanze” a diciotto anni che è stato un
crocevia tra la musica colta e la musica più diretta come il pop, il rock. Mi
sentivo figlio di queste due anime contrastanti, che io ho deciso di unire.
Prima non c’era un’etichetta in cui inserire un genere musicale. La mia musica
non era classica, non era pop, non era rock, è stata veramente dura. Anche oggi
in fondo non sono “etichettabile”. Posso scegliere di seguire la strada che voglio,
che più mi rappresenta. Nessuno si muoveva nel ‘700, mentre oggi con internet
siamo a contatto con il mondo intero, con etnie diverse, musica di ogni genere.
C’è un approccio diverso. Fino a pochi anni fa c’erano ancora le cassette con
il nastro, che era sinonimo dello scorrere, del passare del tempo. Oggi con il
cd rigido sembra tutto così statico.
Anche tu come Battiato ti ispiri a qualche filosofo, scrittore o
compositore del passato per la tua musica?
La mia musica ha tratto molto
ispirazione da Gurdjieff è lui
quello che più di tutti mi ha illuminato. E’ il lato sacro e barocco della
musica, tanto che io all’inizio facevo anche musica sacra. Ho partecipato al festival
di Gerusalemme. E’ un po’ l’atteggiamento che hanno avuto anche molte rock star
in fondo. La ricerca del sacro, delle purezza ha condotto molte icone dannate
del rock alla morte, per cercare qualcosa che andava oltre il sensibile. Ho
lavorato anche in posti non accademici con Basaglia, Guarino. L’ispirazione mi
arriva anche da delle correnti filosofiche certo, dalla psicologia moderna, da Jung, non certo da Freud.
Come vive un individuo come te, che sembra venire da tempi lontani se
non addirittura da un altro mondo, questi tempi moderni?
Non c’è tanta differenza tra me e
le altre persone. Io svolgo un compito con la mia musica, che consiste nel
contattare le altre persone, a me interessa questo. Vivo più o meno come tutti
gli altri, con presenza ed attenzione, cercando di rendermi utile, facendo del
bene. La vita vera è quella interiore e va vissuta con buona intenzione, io
cerco di viverla così. Ne parlavo anche con Battiato per esempio, e gli ho
detto che quando la gente esce da un suo concerto sembra avere la felicità
negli occhi perché incontra degli argomenti di cui discutere, da condividere.
La vita è come lo spazio e non se ne può più di tutta questa violenza che ci
circonda e che ci viene sbattuta in faccia ogni secondo, è una sorta di
masturbazione.
Immagino che anche l’effetto dei tuoi concerti non sia molto dissimile
da quello di Battiato…
Io vivo benissimo il concerto,
trovo sempre un gran riscontro dai live. Il mio pubblico è attento e vivo ed
ogni volta è come se si andasse a creare una sorta di rito. Sai, come si faceva
nei tempi antichi, nei templi. In fondo si cercava la stessa cosa e durante i
miei concerti riaffiora un po’ questa sensazione, grazie soprattutto all’aiuto
del pubblico. Sono dei momenti magici, è bellissimi, come un rito, sul serio.