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L’artista trasparente

Con Come il vetro Renato Abate in arte Garbo conclude la sua “trilogia cromatica” all’insegna della “trasparenza”. Un concetto che per l’artista comasco ma di origini milanesi significa soprattutto onestà intellettuale e libertà nel portare avanti la propria musica, la quale negli ultimi anni – tra tributi, ristampe e nuove uscite sempre all’altezza della situazione – sta attraversando un periodo di riscoperta del tutto meritato.


“Come il vetro” conclude una “trilogia cromatica” iniziata con “Blu” e “Gialloelettrico”. La trasparenza è la sintesi e la negazione di tutti i colori. C’era già dall’inizio, ovvero quando avevi pensato a “Blu”, l’idea di concludere così?
Assolutamente no! Volevo questa trilogia fin dall’inizio, sapendo che il cromatismo poteva concettualmente aiutarmi a sviluppare di volta in volta il mio suono e le mie liriche, ma ho imparato a capirla e a conoscerla strada facendo.
 
In realtà però nel booklet del disco domina il rosso: è una scelta che vuole comunicare qualcosa o è puramente estetica?
Non solo è puramente estetica, ma è anche molto casuale (che culo!) nel senso che questi scatti fotografici sono stati fatti in una location in costruzione che aveva le pareti rosse, per cui tutto si è pervaso di rosso, come fosse stranamente una lente-filtro di quel colore.
 
Visto che di colori parliamo, quale colore credi ti rappresenti meglio?
Nero, quindi l’assenza dei colori. Oppure la fusione di tutti i colori, cioè il bianco.
 
Il vetro come trasparenza ma anche come fragilità. Pensi che stiamo diventando sempre più trasparenti, cioè che ogni cosa ci passa attraverso senza colpirci più di tanto, oppure sempre più fragili, cioè che non abbiamo alcuna resistenza alle cose che ci colpiscono?
Se osservi attentamente quello che hai intorno, cioè il sociale, sembrerebbero accadere sia l’una che l’altra cosa, e questo è molto triste. Per quanto mi riguarda, la fragilità è sinonimo di sensibilità che mi predispone all’atto creativo, mentre la trasparenza è il bisogno di onestà intellettuale con me stesso e di conseguenza nei confronti degli altri.
 
In fondo al booklet hai messo una serie di aggettivi associabili al vetro. Magari è una sensazione solo mia, ma penso che anche “freddo” avrebbe potuto stare nella lista. Ci hai pensato? C’è magari un motivo per cui non l’hai messo?
Non mi trovo assolutamente d’accordo, il vetro non è necessariamente freddo o caldo, il vetro mi assomiglia perché si raffredda a temperature basse e diventa bollente a temperature alte. Prova a pensare al parabrezza della tua auto quando la lasci d’estate al sole… dubito che sia freddo! E comunque a me serve solo per guardarci attraverso e farmi guardare attraverso.
 
Se non sbaglio vivi a Como, che è una città ma non esattamente una metropoli. Eppure i tuoi pezzi respirano un’aria molto metropolitana, da metropoli moderna. Quanto contano i luoghi in cui vivi o che frequenti per le canzoni che scrivi?
Moltissimo, infatti non frequento Como. Credo nel dna geografico, ed io sono nato a Milano. Lì ci ho vissuto professionalmente e ne ho respirato l’aria quando la si poteva palpare – ovviamente parlo di aria creativa.
 
Accanto ai synth, nei brani del disco ci sono le chitarre ma anche molto pianoforte. Hai mai pensato di provare a fare un disco lasciando da parte completamente l’elettronica?

E’ una cosa che tutto sommato è già accaduta in “Up The Line”. D’altra parte penso che per un compositore sia importante soprattutto la filosofia di quello che vuole rappresentare in quel momento, e quindi penso di utilizzare lo strumento che in quel determinato atto creativo meglio mi rappresenta, elettronico o acustico è indifferente.
 
Nel 2006 sei stato omaggiato con un disco tributo intitolato “Congarbo”. L’omaggio in vita non è molto tipico in Italia ma negli per Stati Uniti, per fare un esempio, è piuttosto frequente. Come ti sei sentito nella condizione di omaggiato? Tra le cover dei tuoi pezzi ce n’è qualcuna che hai apprezzato particolarmente?
Mi sono sentito, in ordine cronologico, dapprima stupito e poi gratificato. Non pensavo di aver lasciato tracce meritevoli di tutto questo, ma evidentemente è così. Certo è che l’essere ancora vivo mi gratifica ancor di più (ride, ndr)! Riguardo l’apprezzamento da parte mia è totale: è straordinario sentire questi artisti come siano riusciti a rendere propri brani miei e di questo mi sento molto gratificato.
 
Invece tu a quali tributi vorresti partecipare?
A tutti quelli degli artisti che l’hanno fatto a me. Ed anche a quei sette-otto mila che hanno scritto la storia della musica!
 
Nel disco c’è un omaggio ai Ramones, tratto da uno dei loro dischi più particolari (“End of the century”, in cui la produzione è di Phil Spector) e in qualche modo apocalittici (vedi il titolo). Hai scelto questo brano per qualche motivo che vada al di là del puro divertimento?

No, nessun motivo particolare. Molto più semplicemente è un rimando agli inizi della mia carriera, quando ascoltavo e facevo punk nelle cantine con i miei amici e godevo come un riccio a suonare quel genere di musica. Dato che oggi ho la possibilità di fare quello che sento mi sono chiesto: perché non divertirmi un po’ con Baby I Love You?
 
In “Scortati” c’è un brano come Moderni in cui non davi un’idea del tutto positiva dell’aggettivo “moderno”, quando invece comunemente viene considerato positivo a prescindere. Oggi quando pensi alla parola “moderno” che sensazioni hai?
Oggi si abusa dell’aggettivo “moderno” tanto da rappresentare spesso la totale indifferenza al cambiamento, la paura del cambiamento. L’Italia è notoriamente conservatrice ma spesso la gente pensa e veste l’immagine trendy del rinnovamento, in realtà vedo pochi cambiamenti di costume. Penso che questa cosa faccia molta paura.
 
Sempre a riguardo della parola “moderno”: l’elettronica è ancora una musica moderna? Dalla gente comune viene sempre percepita come tale, pur avendo essa una tradizione ormai consolidata.
Come ti ho già detto, il valore dell’atto creativo di un artista è indipendente – secondo me – dal fatto che usi un pennello, oscillatori elettronici o un tasto di pianoforte. Forse è questo a cui bisogna abituare la gente nell’ascolto della musica. Non mi piace essere catalogato come colui che fa elettronica, acustica, pop, rock, ecc. Lo trovo assolutamente limitativo per chi deve “dissetarsi” nel “mare” della musica. Comunque coloro che hanno fatto musica elettronica li ritengo validi anche attraverso i loro cambiamenti di stile, e mi spiace per quegli ascoltatori che hanno seguito questi percorsi non capendo svolte e tormenti che portano all’evoluzione artistica di chi le elabora. Mi delude invece chi si limita nell’espressione artistica che diventa luogo comune.
 
Oltre alla tua attività di musicista, negli ultimi anni hai rimesso stabilmente in piedi la tua etichetta Discipline, grazie anche a Luca Urbani (un tempo nei Soerba) e Alberto Styloo che ne sono consoci. Come sta andando? Quali prossimi progetti avete in cantiere oltre al tuo disco appena uscito?

Abbiamo rigenerato Discipline proponendoci annualmente una serie di progetti pubblicabili perché crediamo nella possibilità di diffusione artistica e progettuale di creatività rispetto a quello che oggi la discografia convenzionale non è più in grado di sostenere. Unitamente a partners, collaboratori, ecc. pensiamo che la musica vada difesa perché arrivi il più possibile direttamente a chi desidera ascoltarla senza inutili devianze e speculazioni. Naturalmente quella che noi riteniamo interessante. Abbiamo parecchi progetti in cantiere ma non ti posso dire di più, speriamo solo di poterli realizzare.



(21/10/2008)

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