Le radici musicali della ..." />

ultime notizie

Giorgia Bazzanti (feat. Michele Monina) presenta ...

di Valeria Bissacco Giorgia Bazzanti torna con un nuovo singolo, Rossa come le streghe, pubblicato il 21 marzo e nato dalla sua collaborazione con Michele Monina, noto scrittore, autore e ...

Andrea Giops

Reggae in via del Campo

Da X-Factor alla Nuvole Production, passando per Morgan, ideale passepartout verso il cantautorato. Dal reggae e il funky a via del Campo. Andrea Giops in questi anni ha regolarizzato la sua intonazione, ma non ha normalizzato, piuttosto ha raffinato il suo approccio istrionico, che emerge nell’alternanza naturale di cantato, parlato e “urlato” imprevedibile e teatrale. Ma accanto e dentro l’Arlecchino scanzonato e mordace, c’è sempre un Pierrot: Giops svela infatti le venature più malinconiche e intimiste del suo io soprattutto interpretando le canzoni di Fabio Cinti. Ecco come racconta il suo percorso di crescita e maturazione. Rivendicando quanto sia indispensabile la passione per la musica. Anche e proprio per chi può cantare Io non sono Giuseppe Verdi, come titola il suo album e la canzone omonima.

Le radici musicali della tua carriera affondano prima nel funky e nel rock e poi soprattutto nel reggae: come sei arrivato da Bob Marley a De Andrè?

Ci sono arrivato scoprendo ed ascoltando tanta musica italiana. Fino a 27 anni mi sono concentrato esclusivamente su mondi musicali esteri: ascoltavo, scrivevo e cantavo in inglese. Ad un certo punto ho sentito la necessità di avvicinarmi alla nostra lingua: volevo fare un disco reggae che trattasse temi diversi dai soliti stereotipi affrontati da chi solitamente fa questo genere. Pochi mesi dopo aver cominciato ho partecipato ai provini di X-Factor 2. Portai E la luna bussò di Loredana Bertè: si avvicinava molto a quello che intendevo, una sorta di incontro fra musica italiana e giamaicana. Morgan mi scelse come concorrente, ma mi consigliò  a lasciare (momentaneamente) il genere su cui mi ero concentrato, per farmi interpretare brani di cantautori italiani che non avevo mai approfondito, come Bruno Lauzi. Ai tempi non capivo, capii dopo: lo fece per il mio bene. In effetti ha avuto ragione, perché quell'esperienza mi ha permesso di aprirmi ed appassionarmi alla musica italiana e di crescere artisticamente.

Come anello di congiunzione tra questi due mondi, è facile pensare ad esempio a Rino Gaetano: che punti di riferimento hai nell’ambito della musica italiana?

Apprezzo molto quello che è stato prodotto negli anni 70: Lucio Dalla, Renato Zero e Rino Gaetano, per citare alcuni esempi. In quel periodo i dischi venivano suonati da vere e proprie big band, senza l'ausilio di campionatori e di sonorità elettroniche. La pasta sonora aveva groove, basso e batteria erano spesso e volentieri in prima linea; tastiere, chitarre acustiche ed elettriche avevano un equilibrio particolare con fiati ed archi. Arrivando dal funky e dal reggae mi sono ritrovato subito in quelle sonorità e in quel modo di interpretare. Ho pensato "guarda un po' cosa mi sono perso": mi si è aperto un mondo.

Sei entrato in contatto con la Nuvole Production grazie alla partecipazione al progetto teatrale-musicale Ostinati e contrari? Come pensi di aver conquistato la fiducia di questa realtà, tanto da avere oggi l’onore e in qualche modo la responsabilità di essere il primo artista, oltre a De Andrè, che pubblica con questa etichetta?

In realtà l'opportunità di partecipare a Ostinati e Contrati capitò per altre vie: Niccolò Agliardi e Paola Lezzi mi introdussero al regista dello spettacolo, Sebastiano Filocamo, che decise di darmi la
parte.

Entrai in contatto con Nuvole grazie a Morgan: Dori Ghezzi, dopo avermi notato in una puntata di X-Factor, si mise in contatto con lui e gli disse che aveva dei brani adatti a me, scritti da un cantautore genovese, Felice Simeone, amico di Fabrizio De Andrè, del giro di via del Campo. Questi brani potevano essermi utili nel caso fossi arrivato nelle fasi finali del programma, ma fui eliminato il giorno stesso che Dori chiamò. Nonostante questo entrai in contatto con lei, ascoltammo insieme i brani e chiesi di lavorarci. Mi impegnai molto e dopo pochi giorni tornai con molto entusiasmo e i provini pronti, più altri provenienti da me e altri autori: da qui partì tutto. La fiducia arrivò naturalmente dopo due anni di lavoro e di confronti.

Ai tempi delle poche puntate di X Factor a cui hai partecipato, eri un estroso e imprevedibile funambolo dell’intonazione, a tratti persino dissacrante. In questo disco appari un po’ più “educato” e regolarizzato vocalmente: la tua voce sembra più matura, ma hai anche conservato il tuo intrinseco lato surreale e istrionico in brani come È colpa mia, Nel letto di Davide, nella title-track Io non sono Giuseppe Verdi o nell’adattamento di L’opportuniste di Jacques Dutronq. È stato in qualche modo valorizzato un certo tuo impeto – come dire? – naïf, anche ad esempio in Un amore troppo, dotata di una lievità musicale delicata e struggente, un po’ anni ’70, ma arricchita da un cantato energico e disperato, come può esserlo quello di un eterno bambino entusiasta per il suo amore per una donna più grande, che pecca di ingenuità e impulsività. Quanto conta per te questo tuo lato teatrale e come pensi di averlo migliorato in questi ultimi anni?

Il mio lato teatrale c'è sempre stato, mi viene da gesticolare quando mi calo nell'interpretazione. Penso sia una peculiarità, ma non mi sento speciale: non sono certo il primo che gesticola nella storia della musica. L’esperienza di X-Factor mi è servita anche in questo caso: rivedendomi da fuori ho capito su cosa dovevo lavorare per affinare le mie qualità e limitare le mie debolezze: per esempio, ho deciso di andare a scuola di canto. Devo ringraziare la fiducia che mi è stata data da Nuvole: non hanno mai cercato di cambiarmi, anzi, hanno sempre sostenuto il mio lato più estroverso. Di questi tempi è raro trovare un'etichetta discografica che guardi oltre, dando modo ad un artista di crescere.

Un amore troppo è una canzone che ti ha portato una ragazza, è stata composta da sua zia, Lidia R. Bianco, che comunque contava tra gli amici di famiglia Paolo Conte: come è stata selezionata per l’album?

Questa ragazza, che si chiama Monica Camilla Torino, mi contattò su Facebook. Similmente a come avvenne con Dori Ghezzi, mi disse che aveva dei brani adatti al mio modo di interpretare. Canzoni che sua zia le cantava quando era piccola, per farla addormentare o per farla sorridere quando piangeva. Si offrì di portarmeli direttamente da Asti, così decisi di incontrarla. Mi lasciò una musicassetta, con poesie musicate al piano in maniera molto grezza, che però mi colpirono subito. Decisi di lavorarne un paio, arrangiandole in uno stile compatibile a quello che stavo facendo: nel caso di Un amore troppo l'esperimento riuscì particolarmente bene, così decidemmo di inserirla nel disco.

Come è nata quest’amalgama di autori, con Fabio Cinti, Niccolò Agliardi, Felice Simeone? E come ti sei relazionato agli stili differenti di autori diversi?

È stato fantastico. Credo che il confronto con altri artisti arricchisca tantissimo e io ho avuto la fortuna di farlo con diversi professionisti della canzone d'autore. Mi piace sperimentare la mia interpretazione su brani di altri, soprattutto quando posso spaziare come stile: mentre per un periodo sono stato chiuso nel reggae, ora che mi sono sbloccato ci ho preso gusto e sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, che mi stimoli e mi faccia prendere coscienza delle mie qualità di interprete.

Ad esempio lo stile di Cinti è più disteso e complesso, con una metrica più lunga, una certa aura elegante e poetica anche nei momenti ironici (tra Battiato e Morgan), un respiro più malinconico rispetto a brani più leggeri e scanzonati come Nel letto di Davide. Pensi che continuerai a sviluppare anche questo tuo lato più profondo e pensoso, che si nasconde sotto la maschera del “giullare”?

Certamente: sotto la maschera del “giullare” si nasconde un uomo, con emozioni, idee e sentimenti comuni a molti. Approfondirò ogni mio lato, cercando di scoprirne sempre di nuovi: più sentimenti avrò modo di interpretare, più crescerò come artista. Voglio andare avanti.

Nel disco è tua la musica di Mai più e parte di alcuni testi: è un po’ poco perché si possa parlare di un vero debutto da cantautore. Come mai c’è ancora così poco di tuo? È un disco di “avviamento”? Tu hai condiviso per poco l’esperienza del talent, ma a volte uno dei limiti degli ex-concorrenti di questi show è proprio l’essere troppo legati alla dimensione di interprete…

È vero, ci sono molti bravi interpreti. In TV si cerca questo. Non è facile trovare qualcuno che sappia cantare con personalità e stia bene in televisione: ovvio che per un fattore di probabilità capitano più interpreti che cantautori. Sarebbe bello se facessero un talent show per autori, dove si valutasse la canzone più che le doti vocali e l'immagine. Sarebbe meno televisivo, ma di grande utilità. Questi contest in realtà ci sono, ma avvengono fuori dalla tv, quindi non godono di grande visibilità. Ma c'è da dire che è molto difficile trovare dei bravi autori, che propongano testi originali, personali, senza cercare di standardizzarsi, anche in quel caso, nei soliti temi trattati dalla musica pop. Chi fa il mestiere dell'autore deve piazzare i pezzi per campare, quindi in un certo modo è condizionato a scrivere a quello che il mercato richiede. Nel mio caso ho sempre composto e scritto testi in inglese, seguendo modelli musicali particolari. Per questo ho reputato che fosse meglio, in questo disco, mettermi in gioco più come interprete: i brani che mi avevano proposto erano già molto forti, in linea con quello che avevo in mente di fare. Insomma, non sono stato troppo a guardare chi aveva scritto le canzoni, ma le canzoni. Mi è servito anche per fare pratica sulla lingua: scrivere testi in italiano, che non risultino banali, ne richiede moltissima; io sono solo
all'inizio.

Guardiamo però ad un’altra accezione del significato di interpretazione, ovvero alla performance live. Tu sei del 1980 e hai cominciato a 16 anni: sei di una generazione che viveva la musica come tesoro da cercare scartabellando nei piccoli negozi, o tra gli odori dei live club. Una generazione insomma per cui la musica era più analogica che digitale, “virtuale” con le pr sui social network o mediatica. Quanto conta per te la dimensione live e come è cambiato nel tempo il tuo approccio ai concerti?

Il live conta molto, anche oggi: è l'unico modo di far affezionare il pubblico e dare credibilità ad un progetto. Per me non è cambiato nulla, se non la difficoltà a trovare un locale che paghi. Il problema, più che l'avvento dell'era digitale o “virtuale”, secondo me è l'interesse del pubblico: oggi molte persone preferiscono spendere 30 euro per andare in una discoteca alla moda, piuttosto che andare a vedere un bel concerto. Il beat elettronico è di sicuro più di impatto per far muovere il
bacino, ma secondo me c'è anche una ragione culturale alla base. Sono stato recentemente in Irlanda e in Inghilterra, ho visto molti locali proporre sia set dal vivo che discoteca: ma la gente lì è molto diversa, nessuno sta a guardare come sei vestito e non si fa selezione all'ingresso dei locali; non entri solo se sei minorenne ed il controllo è molto scrupoloso. Credo dovremmo imparare in questo senso dalla cultura anglosassone, poi ci si chiede perché i più grandi artisti
arrivano dall’estero.

Il brano di Cinti Sweet Sorrow sterza quasi verso il pop-punk nel ritornello: quali sono stati gli ascolti di musica internazionale che hanno maggiormente influito sul tuo percorso musicale, al di fuori e al di là del reggae?

Potrei farti molti nomi, ho sempre ricercato e collezionato gruppi e artisti particolari, più o meno celebri. Tra quelli più conosciuti Ramones, Pink Floyd, The Doors, The Clash. Ma anche Madness, Police, Elvis Costello e Jaco Pastorius. Il disco che per primo mi ha fatto capire che volevo fare musica è stato Blood Sugar Sex Magik dei Red Hot Chili Peppers.

Chiudiamo con una tua autopresentazione. Dichiari di ritenere fondamentali lo studio e la preparazione per raggiungere ottimi risultati nella musica, così come in altre forme d’arte, ma anche che esprimersi artisticamente, qualora se ne senta l’esigenza, sia “un diritto di tutti”: hai una grande chance di esprimerti e farti ascoltare con questo album. Ma come riassumeresti e presenteresti ciò che hai da dire? Cosa pensi ti differenzi da altri artisti?

Gli artisti sono persone che hanno l'urgenza di comunicare, che portano avanti con costanza e con sacrifici le loro idee. Io non mi differenzio dagli altri per questo. Nella musica le vie espressive sono molte: che sia pop, jazz, blues, metal o rap fa poca differenza; è la passione che contraddistingue un vero artista da chi non lo è. È questo quello che voglio dire con Io non sono Giuseppe Verdi: non bisogna avere paura dei propri limiti se si sente questa necessità; bisogna solo credere in sé stessi, lavorando sodo per migliorare e per crescere.

Share |

0 commenti


Iscriviti al sito o accedi per inserire un commento


Altri articoli di Ambrosia Jole Silvia Imbornone