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Andrea Celeste

Talenti coi piedi per terra

Se ascoltata su disco, la voce di Andrea Celeste mette letteralmente i brividi, averla vista recentemente cantare sul palco del Blue Note di Milano è stata un’esperienza straordinaria. In quell’occasione ha dimostrato di aver raggiunto una maturità artistica invidiabile, che le ha permesso di reggere il palco con tutta quella sicurezza che è lecito attendersi da navigate artiste di livello internazionale, che non da una giovane cantante appena ventiquattrenne. L’invidiabile percorso artistico alle spalle non le ha fatto però perdere la bussola e, in questa intervista, Andrea dimostra chiarezza d’intenti, grande umiltà e un’innata allegria.  

Partirei da una curiosità tutta mia: come mai porti il nome Andrea, che è notoriamente un nome maschile?

Diciamo che è stato mio papà a scegliere il nome,  che sarebbe dovuto essere Andrea Celeste, più ovviamente il cognome Ieffa. Quando sono nata, l’infermiera andò da mia mamma a chiederle i dati e, quando sentì come avrebbe voluto chiamarmi, le disse: “Ma no, signora, lei è pazza, sono due nomi da maschio”, al che lei replicò “Va beh, posso capire Andrea, ma Celeste no”. L’infermiera allora replicò “Sì, nell’Italia meridionale Celeste è un nome da maschio”. Così all’anagrafe fui registrata come Celeste Jeffa. Mia madre poi volle comunque battezzarmi come Andrea Celeste. Negli anni, mi accorsi che il cognome Ieffa risultava ostico e non restava mai in testa a nessuno, allora pensai di tenermi artisticamente i miei due nomi. Ed eccomi allora come Andrea Celeste, che mi piace molto per la musica, perché Andrea è sia un nome maschile sia femminile e Celeste, almeno secondo quanto diceva l’infermiera, è un po’ da maschio e un po’ da femmina, proprio come la musica, che è di là dei sessi e di là dei limiti che ci poniamo noi esseri umani - un po’ come l’anima.

 

Com’è nata, invece, la tua passione per la musica? È stata subito rivolta alla musica jazz o il jazz è stato un approdo successivo?

Al jazz sono arrivata parecchio in seguito, perché ci sono arrivata intorno ai tredici anni.

 

Quando eri già vecchia quindi …

(Risate) In effetti sì, almeno rispetto ai puristi del jazz, che magari iniziano ad ascoltarlo a tre anni, perché nascono in una famiglia in cui c’è già una cultura jazz. A casa mia si ascoltava Pink Floyd, Queen, mia sorella ha qualche disco dei Dire Straits, un’altra sorella ascoltava Sade, tutte e due le sorelle maggiori cantavano Battisti. Il jazz è arrivato per pura casualità, perché c’era un mio amico parrucchiere che aveva un cd di Billie Holiday sul bancone: capitai lì un giorno ed aveva questo cd uscito con Famiglia Cristiana, io lo guardai e mi chiesi “Di chi è questo cd?”.  Ero già abbastanza appassionata di gospel, però di jazz ancora no. Lui mi spiegò che faceva parte di una collana: me lo feci prestare ed ovviamente come sentii la sua voce, ebbi un mezzo malore. M’innamorai completamente di lei come artista, perché non avevo assolutamente mai sentito qualcosa del genere. In seguito m’innamorai del jazz. Avevo però cominciato da tutt’altro, dal pop, perché nella mia famiglia nessuno è cantante, nessuno è musicista, a parte adesso una delle sorelle più grandi che, dopo aver visto i miracoli del mio maestro di canto su me quando ero piccola, ha poi deciso di intraprendere un percorso di canto lirico. Nessuno in famiglia mi ha detto “però, questo è un pianoforte, puoi suonare così”, oppure “Prova a cantare queste canzoni, nessuno mi ha indirizzato verso la musica, mi sono trovata a cantare in un karaoke a dieci anni, ma non sapevo neppure come facessi a sapere cantare, né avevo coscienza di cantare per altri. Diciamo che cantavo per me, per le mie sorelle, poi, quando mi sono trovata di fronte ad una sorta di pubblico, mi sono resa conto che mi piaceva proprio cantare per gli altri e non mi sono più fermata.

 

Dal karaoke sei quindi approdata al Blue Note di Milano, ne hai percorsa tanta di strada.

(Risate) Eh sì, sono passati un po’ di anni, un po’ di cose, un po’ di tempeste musicali ed umane, vissuti di ogni genere e sono approdata al Blue Note di Milano. (Risate)

 

Anche se poi, tutto sommato, la serata del Blue Note ha dimostrato di essere piena di contaminazioni, non hai affrontato un repertorio totalmente jazz.

Assolutamente no. Ne parlavo proprio l’altro giorno con un amico contrabbassista e gli dicevo appunto che, quando ho scoperto il jazz, ero letteralmente impazzita per tutte queste cantanti come Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Dinah Washington. Ero proprio malata di jazz gospel e, dai tredici ai sedici anni, volevo fare solo jazz, volevo essere una jazzista tradizionalista, direi talebana. Invece proprio il mio percorso anche umano non me l’ha permesso, perché allora andavo a rompere le scatole ai jazzisti in Toscana e non mi considerava nessuno. Quindi mi sono dedicata al gospel, a gruppi di vario genere. Andavo a Rimini, avevo un gruppo con una tizia americana che faceva rap, gospel, R&B: una cosa allucinante, però mi sono accorta del valore che ha avuto tutto questo solo in seguito, perché in fondo sono uno spirito libero, mi piace affrontare mondi e linguaggi musicali diversi e quindi quella di essere una jazzista tradizionalista non sarebbe stata, forse, una scelta felice. È stato meglio così, perché sono arrivata al jazz più tardi. In fondo ho avuto un po’ di considerazione dal mondo del jazz solo quando ho fatto il primo album, perché il mio produttore aveva un contatto con questa etichetta di jazz che ha sentito i miei brani non propriamente jazz, però con questa veste. Ed è venuta fuori questa contaminazione che per adesso mi piace, che mi si addice, più che altro per storia e modo di essere e di pensare.

 

Tornando al concerto del Blue Note, che ha avuto un grande successo, come mai hai attinto la maggior parte del repertorio dal tuo primo disco My reflection senza affrontare nulla di Enter eyes?

Soprattutto per un discorso di formazione: diciamo che in quartetto preferivo fare queste tipologie di brani, mentre per Enter eyes abbiamo fatto proprio un altro tipo di percorso nella registrazione del disco. Era una cosa molto intima tra me ed Andrea Pozza. Ecco, non mi sentirei di mischiare le due cose: sì, sono sempre io, con la mia voce, con il mio stile, però sono due amori diversi.

 

Enter eyes è solo voce e pianoforte, più intimo.

Sì, più intimo, un repertorio anche diverso, perché anche i brani di Andrea ed io li sento fatti solo così, con il suo pianoforte ed il suo tocco insostituibili. Allo stesso modo, per altri miei brani sento il bisogno di questo tipo di formazione (quella utilizzata al Blue Note, NdR): un quartetto o, al massimo, la presenza anche di una chitarra o un solista che fa un fiato, però sono appunto due sonorità e due colori diversi.

 

Hai parlato della possibile presenza di un chitarrista e proprio con un chitarrista, Gennaro Alfano, hai scritto il brano “My Reflection”, che dà anche il titolo al tuo disco d’esordio.

(Risate). Quel brano è nato con una storia sua tutta particolare: avevo incontrato Gennaro grazie ad una mia carissima amica e poi non ci siamo più sentiti per mesi. Avevo cantato con lui in un’occasione, ed era stato un bell’incontro musicale:lui suonava la chitarra ma non l’avevo sentito suonare in quella serata, mentre proprio in quell’occasione lui sentì cantare me. Mesi dopo, finiti un po’ di progetti musicali (anche finiti male per la verità), mi dissi “Fammi chiamare questo Gennaro, porca miseria, voglio sentire come suona” (Risate), allora lo invitai a casa mia, a prendere un caffè e gli dissi “Porta assolutamente la chitarra perché facciamo cose oggi”. Arrivò lì pensando di ascoltare miei brani e di dover suonare magari qualcosa di mio, di arrangiare qualcosa che avevo già scritto. Gli feci ascoltare quello che avevo scritto e poi, ad un certo punto, gli dissi: “Dai Gennaro, scriviamo qualcosa”. Lui mi disse: “Ma cosa, ci devo pensare… adesso devo andare a casa, scrivo qualcosa, metto giù due accordi, poi torno”. Gli replicai decisa: “No, tu devi suonare adesso” (Risate) e alla fine scrivemmo My reflection proprio quello stesso giorno, dopo il caffè - era nell’aria. Di lì è nata anche una grande amicizia. A Gennaro devo tantissimo, è stata la persona che ha insistito perché facessi a tutti i costi un demo o comunque registrassi qualcosa, e quei brani erano quelli che ho pubblicato sul mio primo MySpace, gli stessi che ha poi sentito quello che è diventato poi il mio produttore, Roberto Vigo.

 

Prima hai parlato della tua collaborazione con Andrea Pozza ma, nel tuo primo lavoro My reflection hai collaborato anche con un altro grande pianista, Dado Moroni. Com’è nata questa collaborazione?

Con Dado è stata una sorpresa incredibile: io ovviamente lo conoscevo come jazzista, lo stimavo tantissimo, però non l’avevo mai incontrato. Il mio produttore, che era già molto amico di Dado - avevano già fatto insieme alcune registrazioni dei suoi dischi - ha pensato bene di invitarlo a fare una collaborazione per My reflection, facendo magari uno standard con me. Mi ricordo benissimo: eravamo in studio, suonò alla porta Dado, aprimmo ed entrò quest’uomo gigante, meraviglioso (Risate). Ovviamente la mia soggezione era proprio al limite dell’impossibile: ci conoscemmo, scambiammo due chiacchiere, quindi Roberto gli fece ascoltare proprio tutti i nove brani che avevo scritto io e che avevamo realizzato in un giorno o due con il trio base Tagliazucchi, Cerruti e Cervetto - lui ascoltò tutto attentamente. Io rimasi tutto il tempo in un angolo, su una sedia, sudavo freddo. Poi, ad un certo punto, lui fece: “Ma senti, perché fare uno standard? Io qua ho un brano originale e tu, se vuoi, ci puoi mettere le parole”. Dopo un quasi svenimento, decidemmo insieme di fare questo pezzo, che poi è Real e che abbiamo eseguito anche al Blue Note. È stato davvero un onore per me, perché ogni volta che lo riascolto, percepisco sempre cose nuove, cose belle proprie dell’anima di Dado, che oltre ad essere un musicista eccezionale è anche una persona autentica, una persona incredibile, con cui poi è nata anche una grande amicizia, molto bella e per questo continuiamo a fare cose insieme.

 

Ed invece di Andrea Pozza cosa mi dici?

Andrea è un altro grande. Non lo so, ha proprio quest’anima eterea, è incredibile quando è al pianoforte: lui s’isola ed esce fuori questa sua delicatezza. Anche lui è proprio un artista pazzesco, raffinatissimo, coltissimo. Anche lì, è nato tutto un po’ per caso, perché era venuto in studio per provare il pianoforte ed il mio produttore si è subito innamorato del suo tocco, come avvenne con Dado. Così Andrea, scherzando, mentre stavamo cantando qualche standard, ad un certo punto disse: “Però, con questo pianoforte si potrebbero mettere due microfoni e fare un disco” – e così l’abbiamo fatto (Risate).

 

Passando così dal disco con un gruppo ad un disco con solo la tua voce ed il pianoforte di Andrea.

Sì, per altro rischiando anche molto, perché Enter eyes è anche un disco difficile: fare un disco piano e voce ti mette molto a nudo, sia a livello tecnico sia espressivo. Vero è che il pianoforte di Andrea è enorme: è una tavolozza talmente ricca di colori che non c’è bisogno di fare moltissimo, però è stata una bella prova, perché il pianoforte ha tutta una sua ritmica.

 

Beh, è stata una bella prova di coraggio, perché, anziché procedere su un percorso simile e che ti aveva portato fortuna, hai voluto intraprendere un nuovo viaggio, utilizzando un linguaggio musicale più scarno ed asciutto.

Sì, esatto. Non voglio usare il termine minimalista, perché la musica di Andrea non è per niente minimalista, però ci siamo spogliati di tutti questi strumenti e siamo andati a fare un qualcosa che ci rispecchiasse, lui come pianista ed io come cantante. Abbiamo quindi rivisto un po’ di standards, un po’ di cover. Penso che alla fine i brani più riusciti di quel disco siano proprio i brani di Andrea che sono di una bellezza assoluta. Anche lì è stato è stato veramente un onore grandissimo, per me, poter scrivere i testi di quei brani.

 

Nel 2010, invece, sei finita anche tra i duecento talenti italiani premiati dal Festival TNT, che non c’entra niente con “Supergulp, fumetti in tv” del lontano 1978.

(Risate) No, guarda non c’entra niente, penso però che sia stata un’idea veramente ottima del ministro Meloni, le devo dare in tal senso molto credito. Devo essere onest: inizialmente non ci credevo moltissimo, perché ormai oggi si abusa della parola “talento”. Si parla tanto di “talent show” e pensavo quindi ad un qualcosa più in termini negativi che positivi. Io non amo molto certi programmi televisivi, diciamolo proprio, onestamente - dichiariamolo: non mi piacciono! (Risate) Mi chiedono tutti “Ma non hai fatto mai i provini?”. No, non li ho mai fatti perché non ci credo, non è il modus operandi, ecco. Io quando faccio le prove o scrivo, devo essere sola e tranquilla, se c’è una telecamera lì, che mi fissa, proprio non mi piace, e poi, tutto il concetto che c’è dietro, non m’ispira. Comunque, tornando al Festival TNT, invece sono arrivata a Roma e, mamma mia, ho conosciuto proprio delle persone incredibili. Proprio come hanno scritto gli organizzatori nella loro pubblicità: c’è un’Italia diversa, un’Italia migliore, i giovani che fanno un’Italia migliore. Ho conosciuto fisici, ricercatori, psicologi… di ogni categoria c’era l’eccellenza più assoluta ed è stato proprio bellissimo girare, assistere agli show di tutti questi artisti di ogni tipo - secondo me, anche un fisico è un’artista, una persona che usa il proprio intelletto a livelli così alti e così puri è un’artista quanto un pittore, quanto un cantante, quanto un musicista. Quella settimana vissuta a Roma è stata davvero una fonte d’ispirazione per me. Sapere che ci sono tanti giovani che non scendono a compromessi proprio come cerco di fare io ogni giorno è anche rincuorante, perché a volte viene da chiedersi “Perché, forse sono l’unica cui non piacciono i talent show?” (Risate)

 

No dai, siamo in due …

Infatti (Risate)… boh forse sono esagerata, forse sono troppo samurai. Invece no, è giusto, ci vuole, come dire… un tronco, per formare un albero, un tronco solido, altrimenti che futuro costruiamo? Io nel mio piccolo voglio costruire un futuro solido, non m’interessa avere oggi ottocento miliardi di date spicciole, dove comunque non cresco, dove canto su basi o che so, su cose finte, elettroniche. Preferisco magari avere meno date, meno apparizioni, ma di qualità, con musicisti dove si cresce, dove ci si confronta, dove si migliora, dove c’è scambio umano ed intellettuale. Altrimenti non ha senso tutto questo. Questo Festival TNT, oltre ad essere stato una scoperta micidiale, è stato un grande onore per me, perché in fondo mi sentivo solo una cantante, lì in mezzo a ricercatori, studiosi, persone che veramente stanno cambiando il futuro dell’umanità, gente che si sta impegnando per cambiare le cose davvero. Nel mio piccolo essere lì mi ha molto onorato, spero quindi di essere anch’io all’altezza e di poter cambiare qualcosa.

 

Ma quanto impegno, quanta dedizione c’è dietro ai risultati che hai raggiunto? Perché ti ho vista dal vivo al Blue Note ed hai dimostrato una maturità artistica incredibile per una cantante di soli ventiquattro anni. So che qualcuno ti ha paragonato ad Anita Baker, però io potrei paragonarti anche a Sarah Vaughan per la tua capacità di dominare certe tinte più scure della tua magnifica voce, ed il tutto con una sicurezza, non freddezza, proprio sicurezza, quasi fossi un’artista che calca palchi importanti da una vita.

Grazie! Guarda, c’è tanto lavoro e riguardo a questa sicurezza, devo proprio dare credito a una persona che mi ha cambiato la vita. Sono stata fortunata perché l’ho conosciuta quando ero ancora piccola, quindi mi ha potuto coltivare: è il mio maestro di canto Vittorio Scali. Lo ripeto sempre, in tutte le interviste, sarò noiosa magari, però lui mi ha preso con sé che avevo tredici anni: avevo una voce già abbastanza matura, sviluppata, però con lui ho fatto un lavoro molto lento, un percorso lungo, una vera palestra se penso alle ore passate a fare vocalizzi, a quanto anche mentalmente mi abbia formato. Non è soltanto una questione di esercizio, è proprio il sentirsi cantante, alzarsi la mattina ed avere in testa già la musica, il suono della propria voce, cercarne il suono, cercare di cambiarlo, di formarlo. Tutto questo lo devo tutto a lui. Lui è stato veramente incredibile, mi ha dato la tecnica, che è lo strumento con cui tu poi puoi esprimere te stessa: hai voglia di dire che l’espressività è una cosa naturale, è vero che si nasce artisti, è vero che si nasce con certe predisposizioni naturali - però, accidenti, se non hai gli strumenti per tirare fuori quello che senti è un disastro. Io sono stata fortunatissima a conoscere lui così piccola, perché abbiamo fatto un lavoro lentissimo che è durato anni, è stato anche molto duro, ma allo stesso tempo divertentissimo, perché era quello che volevo fare, per me era invece duro andare a scuola (risate) perché volevo cantare. Quando ero a lezione da lui, mi sentivo proprio tranquilla, serena, invogliata. e poi, come persona, è stato come un padre: mi ha sempre riempito di consigli positivi, mi ha anche fatto capire quanto fosse preziosa la mia voce, perché a volte non ci si rende conto dei propri doni e magari non gli si dà abbastanza attenzione. Lui, invece, con la sua disciplina, mi ha fatto rendere conto che avevo un dono, un qualcosa che dovevo coltivare assolutamente… davvero, Vittorio Scali per sempre (risate), forever! Un uomo meraviglioso, una persona di una cultura immensa e di un’umiltà indicibile.

 

Hai invece nel cassetto qualche progetto nuovo?

Il cassetto è già aperto: ci stiamo lavorando, sarà un disco da solista, perché il disco con Andrea Pozza non lo considero un disco da solista, è stato un disco di due solisti insieme. Invece il disco nuovo sarà un disco di Andrea Celeste, con brani di Andrea Celeste inediti, con collaborazioni grandiose. Avremo Dado Moroni, ma ci sarà anche Marco Fadda alle percussioni, Lucas Bellotti al basso, Stefano Cabrera che si occuperà anche degli arrangiamenti e con questo ho già detto tanto, perché lì davvero stiamo esplorando delle sonorità abbastanza inconsuete, allontanandoci direi dalle sonorità jazz. C’è qualcosa di più pop-soul in vista, però siamo noi stessi. In questo momento non ci stiamo molto preoccupando del genere, della scatolina in cui metterci a livello commerciale, perché quello è un aspetto che verrà solo dopo. Vogliamo creare, creare qualcosa e se crei pensando, già stai sbagliando. Noi invece stiamo creando sentendo feeling verso le persone con cui vogliamo suonare, abbiamo un feeling verso Dado, abbiamo un feeling verso Marco Fadda, ho un feeling verso Stefano che è un’altra persona meravigliosa - è uno dei musicisti proprio più bravi che ci siano in questo momento in tutta Italia, sta lavorando con tutti. Era recentemente anche a Sanremo con i New Quartet, quindi per noi, oltre che essere un onore, è un piacere avere a che fare con un musicista così bravo, ma bravo proprio, con la B maiuscola. Feeling verso le persone con cui lavoriamo e feeling verso le cose che stiamo facendo, non vogliamo pensare, vogliamo sentire, che è ben diverso, e, quindi, creare. Stiamo appunto creando questo album e ce la siamo presa con calma perché abbiamo iniziato l’anno scorso e stiamo effettuando un lavoro di composizione e di ricerca molto lento, ma che sta portando a buoni frutti. Pensiamo di fare qualcosa per l’estate, però per l’uscita non ancora abbiamo idea.

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