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Gancarlo Guerrieri

I colori e la passione della sua terra in Pazzu. Nel disco un omaggio a Ivan Graziani.

Giancarlo Guerrieri è un cantautore siciliano, e la prima cosa che noti dopo averci scambiato pochissime prime parole è che vive di musica. Facile notare nel suo sguardo come la passione degli inizi non si è tramutata solo in un mestiere, e sembra avere la stessa forza e purezza immutata di quando si comincia a fare i primi passi nella musica.
Pazzu è il suo ultimo lavoro. E, in effetti, solo un pazzo potrebbe ancora impiegare tempo ed energie per dare vita ad un caro e vecchio cd; e più pazzo sei a scrivere quel disco in dialetto, in una lingua di un’isola bellissima ma lontana, lontanissima, dalle stanze dove gli album dell’ultimo vincitore di talent si pensano ed organizzano seduti attorno ad un tavolo.
Lui, pazzo, il disco l’ha preparato in due anni, scrivendo e stracciando fogli. L’ha scritto in siciliano perché comporre con le parole della sua terra lo fa sentire “a casa e più libero” e poi l’ha registrato con i suoi musicisti. E dentro c’ha messo pure un omaggio a Ivan Graziani (un altro che da quelle stanze, quelle dove i dischi si studiano come fossero solo brand da vendere, ci fosse oggi ci starebbe lontano). Con lui abbiamo parlato dei ricordi, della Sicilia…e dei pazzi.


Giancarlo, partiamo dalle radici, da che mondo musicale provieni?

Vengo dal mondo musicale stretto di un paesino di provincia. I primi passi li ho mossi con una band di ragazzini scalmanati che aveva come nome I Sepolcri, da lì è partita la mia folgorazione per tutto ciò che era musica e suono...poi nell'arco degli anni ho avuto la fortuna di entrare a far parte di formazioni sempre più preparate, con musicisti più esperti di me e da lì dopo anni passati a suonare come tastierista in feste e sagre, come del resto hanno cominciato un po' tutti. Da quel momento ho deciso di mettermi alla prova con la scrittura, la composizione di cose mie. Ho avuto la fortuna di avere dei genitori che hanno aiutato questa mia predisposizione e poi quella di incontrare delle persone che hanno creduto in parte in quello che facevo, dandomi l'occasione di incidere le prime canzoni e poi riunirle nel primo disco d'esordio che risale al 1990. Quel disco s'intitolava Sulle tracce dell'iride ed era un timido tentativo di farmi conoscere, un disco realizzato con mezzi poveri. Tutto è partito da lì.

Quindi se c'è un grazie da dire a qualcuno…
Sicuramente lo devo ai miei genitori, che non mi hanno mai ostacolato, non mi hanno mai detto “vai a lavorare in banca” o “trovati un lavoro serio”.

Continuiamo con le radici, qual è uno dei primi ricordi di musica che hai?
Ti farò ridere forse, ma uno dei brani che più ho amato è Vecchio scarpone. È legato ad una vecchia cassetta di mio padre, avrò avuto sei anni e da quella canzone mi sono letteralmente innamorato della musica, soprattutto dell'idea di poterla fare. Da quella piccola canzone ho cominciato ad interessarmi e a voler capire come si facevano i dischi, come nasceva il suono. Certo poi da lì mi sono fatto la mia discoteca personale, da Iggy Pop a Lou Reed, dagli U2, a Carosone, Battiato, ma a quella vecchia cassetta devo molto.

Tu sei siciliano. Cosa ha voluto dire provare a fare musica partendo da un'isola?
Con la musica ho avuto la fortuna di poter abbattere quelle barriere che l'appartenenza ad un'isola ti mette addosso forzatamente, la musica è sempre stata il ponte tra me e gli altri. Credo che alla fine essere siciliano sia stata una spinta, mai un ostacolo. Siamo un popolo passionale, quella passione per me è sfociata nella creazione di suono e storie.

E l’uso del dialetto nella scrittura di queste storie, è stata una scelta o una naturale direzione?
Il dialetto è stata una naturale evoluzione del mio percorso artistico. Il primo disco era un pop in italiano, mi rivolgevo ai miei coetanei, agli adolescenti, ai diciottenni dell'epoca. Il secondo, sempre in italiano, è stato un altro tentativo di farmi conoscere e dire “ho qualcosa da raccontare anche io” ma la vera svolta artistica credo sia arrivata con il primo lavoro in dialetto, Camminanti. Perché con il dialetto ho potuto dire ciò che in italiano suonava difficile, o troppo diretto. Con il siciliano puoi permetterti di dire qualunque cosa, senza far arrossire nessuno, senza risultare retorico o aggressivo.

Anche dal punto di vista della composizione, il dialetto ha sicuramente più colori...
Sì, mi permette di avere una tavola armonica di colori più vasta, e poi mi sono reso conto proprio con questo ultimo disco che cantare in siciliano mi fa essere più credibile come artista, anche vocalmente; sarà anche perché cantare con le parole della mia terra mi fa sentire più protetto, “a casa”.

C'è un’immagine alla quale sei particolarmente legato, che tradotta in italiano non rende?
Sì c'è. Specchiu de la vita mia. Che significa, “io in te rivedo me stesso”. E siccome credo che ognuno di noi dovrebbe amare moltissimo se stesso, quando dico a qualcuno “specchio della mia vita” è un grande segno di amore.

Ora parliamo di Pazzu, tuo ultimo lavoro discografico. Titolo scelto sin dall'inizio?
No, in realtà alla fine. Al termine di tutto il lavoro cercavo un titolo che potesse riassumere le tante sfumature delle canzoni. Ho letto quasi per caso una poesia di Edgar Allan Poe che diceva “i pazzi osano laddove gli angeli temono di andare” e allora io mi sono detto “io mi sento esattamente così”. Pazzo. Perché oggi fare un disco è una follia, è come aprire una fabbrica di macchine da scrivere. Chi le comprerebbe? Io tra l'altro non solo ho fatto un disco, ma l'ho scritto e cantato in siciliano, arrangiato da un musicista genovese trapiantato a Milano.

Però un po’ di pazzia fa bene...
Sì, la follia aiuta. Perché il folle osa e solo osando si superano i limiti che ci impone la normalità. È quindi una pazzia sana, propositiva, che costruisce e fa progredire. Il pazzo è un vincente, con se stesso soprattutto. Ed è sicuramente un uomo più felice.

Le canzoni di Pazzu sono frutto della scrittura di anni o sono concentrate nell'ultimo periodo di vita?
Queste canzoni sono nate in due anni. I testi li ho scritti, poi stracciati, poi ripresi, e riscritti. E condivisi con altri artisti amici per avere un loro parere. Sono molto soddisfatto di quanto è uscito. La cosa di cui sono più felice è certamente il fatto che ho potuto dire quello che volevo, nel modo in cui volevo, senza castrarmi, senza avere remore di nessun genere.

Qualche minuto prima che cominciasse l'intervista si chiacchierava del Premio Pigro, dedicato ad Ivan Graziani.

Senti, prima parlavamo di Ivan Graziani. Non posso non chiederti perché tra i tanti artisti il tuo omaggio, nel disco, sia proprio a lui.
Amo molto la sua opera. È stato un artista che mi ha sempre affascinato, perché ha regalato pagine di splendida musica al nostro Paese. La scelta di riproporre una sua canzone, Taglia la testa al gallo, con un riadattamento del testo in siciliano è nata dal fatto che questa canzone racchiude un'amarezza e una voglia di riscatto, di rivalsa, che forse non tutti sono riusciti a leggere nella versione di Ivan e che io cerco, in una versione più intima, di ritirare fuori. Per raccontare un aspetto di noi siciliani e della nostra terra, che è una terra usurpata dalla cattiva politica e dalla cattiva coscienza collettiva, tutte cose che vanno a sporcare un luogo che dovrebbe essere il fiore all'occhiello dell'Italia. In questa canzone canto soprattutto la rabbia e il dolore per la mia Sicilia.

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