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  di Annalisa Belluco  ‘Canzoni & Parole’ il festival della canzone d’autore italiana organizzato dall’Associazione Musica Italiana Paris che ha esordito nel 2022 è pronto a riaccendere le luci della terza ...

Intervista a Tiziano Rossi (Bauli in Piazza), Giovanni Romano (La Musica che gira) e Vincenzo Spera (Assomusica)

La necessità di riprendere voce

Discorsi sulla salute del settore dello spettacolo

 

Questo medioevo contemporaneo sta riuscendo a tirare fuori la parte meno bella di tante persone, probabilmente perché l’essere umano è un animale sociale incapace di vivere in completa solitudine. Ma chi come me prova ad occuparsi principalmente di eventi culturali, sa bene quanto l’aggregazione o “assembramento” - per utilizzare una parola dei nostri tempi - possa dare all’esistenza dell’individuo in termini di ricchezza emotiva.
E lo sanno bene anche tutti i soggetti che, a vario titolo, uno spettacolo contribuiscono a costruirlo, sia quando si tratta di gestire un megashow a San Siro o il live nel pub periferico che proprio per quello diventa punto di aggregazione fondamentale. Soggetti che quando iniziano a creare un evento) dovrebbero mettere sul piatto anche una responsabilità in termini di cultura musicale da portare avanti (che poi tutti lo facciano o meno questo è un altro discorso). In questo senso non c’è distinzione tra chi propone uno spettacolo per 50.000 persone o chi per 50, cambiano i numeri e il budget che hai a disposizione, ovvio, ma non la consapevolezza di quanto sia importante condividere uno spettacolo live per la crescita umana e culturale di una persona. La condivisione musicale come esperienza di vita che forma e contribuisce ad allargare i nostri orizzonti.

Riflessioni che si sono amplificate ulteriormente dopo aver letto su Rockol (il 26 febbraio) un’intervista di Vincenzo Spera, presidente di ‘Assomusica’ (qui nella foto) che lamentava chiusure da parte di ‘La Musica Che Gira’ e ‘Bauli in Piazza’ (tre realtà fortemente inserite in questo settore) verso la possibilità di fronteggiare in maniera comune la devastante crisi del settore dello spettacolo. A queste dichiarazioni sono seguiti comunicati stampa di Bauli in Piazza e La Musica Che Gira per smentire – o perlomeno dare una lettura diversa – di quanto affermato dal rappresentate di Assomusica.
Mi chiedevo allora come fosse possibile che alcune delle voci più autorevoli di un settore fermo da oltre un anno, potessero lasciarsi andare a uscite disgregative invece di cooperare al salvataggio del salvabile e così, terminato il mio lunghissimo inverno emotivo, ho deciso di mettermi in contatto con Vincenzo Spera presidente di Assomusica, Giovanni Romano uno dei coordinatori de La Musica Che Gira e Tiziano Rossi presidente di Bauli in Piazza – We Make Events Italia per cercare di capire qualcosa in più sul tema.

Abbiamo scelto una formula diversa dalla classica intervista, intercalando le loro riflessioni (utilizzando il più possibile le virgolette così da riportare con esattezza il loro pensiero) con le nostre, perché alla fin fine la domanda è una sola ed è quella su cui gira tutta la ruota. Una domanda per certi versi anche ovvia, ma che invece sembra di capire abbia una risposta complessa e cioè se è possibile nel nostro paese, alla luce della grande crisi che sta vivendo il settore dello spettacolo, fare fronte comune nella comunicazione istituzionale e verso il grande pubblico?

Vincenzo Spera – Assomusica
Purtroppo il mio punto di vista è che sarà difficile riuscire a parlare con una voce unica. Da un lato può essere anche giusto, ma il non riuscirci non è utile al risultato finale. (…) Lo considero un po’ un fallimento personale quello di non riuscire a dialogare con queste altre sigle, ma le cose non si decidono da soli”.
Nell’intervista a Rockol, Spera evidenziava le chiusure da parte di varie organizzazioni al progetto di una ipotetica confederazione, aggiungendo anche che i “movimenti di opinione” nati in questo momento storico siano rappresentativi solo in parte, pur prescindendo dalla “professionalità dei singoli” che le compongono. Evidentemente Spera, seduto a tavoli di discussione ministeriali e già referente italiano per la musica dal vivo per l’Unione Europea, sa quanto sia difficile fare gli interessi di un comparto e riformarlo in maniera ‘etica’.  “Quando si vuole costruire un certo percorso, bisogna rispettare certe regole. Assomusica ha proposto di fare una confederazione, ma né gli uni, né gli altri si sono resi disponibili”.
Il presidente di Assomusica non le manda certo a dire e chiude parlando della possibilità, sempre sul piatto, di fare fronte al periodo di transizione tutti insieme: “io sono abituato a cooperare con tutti sia in Italia che in Europa con la mia attività lavorativa e istituzionale. Ricorderete tutti l’evento chiamato ‘L’ultimo Concerto’, a febbraio, ecco, in quella occasione abbiamo collaborato con Keep On e Arci ad esempio (…); noi siamo una realtà inclusiva, ma se qualcuno si auto esclude, non puoi nemmeno rincorrerlo”.


Tiziano Rossi, presidente di Bauli in Piazza ribadisce con fermezza la sua posizione: “Non è vero che da parte nostra c’è chiusura. Dalla prima riunione dell’inverno scorso stiamo ancora aspettando la bozza di statuto. La confederazione ha senso, ma bisogna sedersi alla pari attorno allo stesso tavolo”. Bauli in Piazza è un “progetto trasversale” continua Rossi, che considera la possibilità di un fallimento dello stesso o di un lungo percorso senza “padroni” a dettarne il suo modus operandi, chiudendo con un chiaro “Noi non ci arroghiamo il diritto di voler rappresentare nessuno”. Lo dice ripercorrendo i passi che hanno portato alla costituzione del movimento e a chi afferma ‘voi dei Bauli fate solo comunicazione’ – e all’inizio anch’io ero tra questi, devo ammetterlo - risponde convinto: “Sì! Supportata da contenuti. Perché oggi la miopia delle istituzioni si combatte con l’obiettivo dei telefoni (…) tant’è vero che dopo la manifestazione di Piazza Duomo del 10 ottobre 2020 c’è stata un’accelerata della politica verso le istanze del nostro settore”. Questa considerazione non è un semplice calcolo rispetto ad una risposta mediatica, ma è anche “questione emotiva” del poter tornare ad organizzare insieme ai propri colleghi, una manifestazione di carattere nazionale che ha comunicato l’alta professionalità del settore; “ho visto colleghi con vent’anni di esperienza - continua Rossi - che in Piazza del Popolo il 17 aprile piangevano sotto la mascherina sentendosi di nuovo parte di un mondo possibile”. E questa è una cosa importante perché bisogna tornare a sentirsi vivi dentro prima di poter tornare a lavorare.


Giovanni Romano de La Musica Che Gira non ritiene che parlare con una voce singola sia necessariamente la scelta vincente, considerando anche il percorso obliquo che questo coordinamento ha intrapreso rispetto a tutte le associazioni di categoria e che li ha portati ad interfacciarsi anche con il Ministero della Cultura. “Noi non vogliamo essere un’associazione di categoria, ma semplicemente una realtà che parla conoscendo tutte le realtà e le figure del settore che la compongono”, per intenderci manager e promoter.
Romano de LMCG è quindi convinto che il tema non sia tanto avere una voce unica o capire il perché non si riesce ad averla, bensì il percorso con il quale ogni entità va a dare voce alle proprie necessità. “Il motivo per cui c’è un’enorme dispersività anche di voci (…) è dovuto al fatto che c’è una dispersione legislativa. Nel momento in cui la disciplina è vecchia o è mancante, si crea confusione e quindi dispersività. (…) Parlare ognuno con la propria voce va anche bene, perché gli interessi e le figure professionali sono diverse. Se la comunicazione è fatta con cognizione è poi l’istituzione che ti cerca come interlocutore”.
Sempre secondo Giovanni Romano, è fondamentale la costituzione di un dipartimento interno al Ministero della Cultura per la Musica Popolare Contemporanea e capirne le istanze, facendo le dovute distinzioni tra le entità che compongono il settore e quindi porre le basi per un impianto legislativo che non continui a pescare nel mare di analogie con altri settori, ma che possa fornire chiare linee guida in materia di welfare per i lavoratori dello spettacolo e sostenibilità dell’apparato che già prima della Pandemia faceva fatica a stare in piedi.

Ma scendendo un po’ più a fondo e parlando nello specifico dei problemi legati al mondo delle live performance, queste hanno radici culturali abbastanza lontane nel nostro Bel Paese. Di base lo spettacolo dal vivo - e la musica in particolare - in Italia viene considerata divertimento piuttosto che cultura; uno svago di fine giornata. E volendo girare ancor di più il dito nella piaga, la musica nel nostro paese, a differenza di Francia e Gran Bretagna, non viene più insegnata nelle università e nei licei. È relegata invece nel completo disastro delle scuole medie e approfondita solo con chi di musica si occupa, così da delegare le competenze di una certa pratica solamente a chi deve praticarla per intrattenere appunto tutti gli altri; esattamente come stiamo facendo nel periodo dei tristi live streaming.

La sperimentazione artistica oggi è ricerca che poi deve diventare linguaggio” dice Tiziano Rossi di Bauli in Piazza, ma se la scuola non educa i ragazzi alla ricerca di spazi di conoscenza personale inalienabile, e si limita a seguire i programmi vecchi di decenni, questo discorso si spegne in partenza.
Quando parlo della cultura che perde terreno, interesse, e che lascia così spazio solo all’intrattenimento, Giovanni Romano de LMCG mi interrompe quasi subito facendomi notare che siamo figli degli anni ’90 e di una cultura televisiva che ha minato senza dubbio i processi sociali. “Bisogna seguire le sollecitazioni del nostro tempo. Gli anni ’70 erano carichi di istanze politiche e il nostro settore rispondeva a quelle istanze; se oggi quello che va è il divertissement non è che siamo noi a dargli spazio, ma il settore che ha intuito una possibilità economica. Poi considera che veniamo da vent’anni di Berlusconismo; non ne esci fuori mica con una generazione”.

Sicuramente questo anno e mezzo pandemico ci ha insegnato che l’urgenza comunicativa è più forte di quella di mercato per chi ha davvero a cuore i percorsi della musica, e questo potrebbe portare a dei buoni cambiamenti verso una comunicazione volta più alla cultura e controcultura, piuttosto che al mero intrattenimento.
Sollecitato su questo punto specifico, Vincenzo Spera di Assomusica imputa parte delle responsabilità proprio al settore, perché ritiene che nelle produzioni si faccia troppa poca ricerca e troppa attività con finalità solamente economica. “Sono anni che parlo di musica come infrastruttura dell’anima e per questo chiedo fondi all’Europa. Non capisco perché puoi pagare la costruzione di un ponte e non investire sull’unica infrastruttura che forse nessun cinese può comprare.” Aggiunge poi un tassello importante sul discorso dei finanziamenti, parlandomi del necessario smantellamento o comunque di un profondo ripensamento del FUS (Fondo Unico dello Spettacolo) così come lo conosciamo, e tra le altre cose dice che “quelli che fanno musica classica in fondo sono cover band (…) Ho esasperato l’esempio, è vero, anche perché mi ritengo un pluralista e non puoi escludere il resto del settore che va avanti con le proprie gambe per finanziare solo - o quasi - la musica classica”. Sintetizzando, Spera non ritiene questa ripartizione equa e rispettosa nei confronti di tutti gli altri lavoratori del settore, chiosando con “Ci lavoro dal 2012 e iniziamo a vedere segnali positivi in questo senso, ma bisogna capire che chi vuole far cultura deve avere progettualità, partire da un punto A per arrivare a B.”

 

Le realtà delle quali ho cercato di scrivere parlano sicuramente un linguaggio diverso anche se - in maniera discontinua - hanno collaborato tra loro per alcune iniziative significative, ma la possibilità che possano fare fronte comune per una comunicazione istituzionale e rivolta al grande pubblico per rimettere in piedi un settore già instabile di suo, è una possibilità che vedo remota. Quello che emerge da questi dialoghi con i rappresentanti di Assomusica, La Musica che Gira e Bauli in Piazza è una grande professionalità e dedizione per ciò che fanno e, per questo, li ringraziamo sentitamente oltre che per la loro disponibilità. Sono parte di quelle competenze importanti che in Italia non mancano, figlie di percorsi di studio, che fanno grande una rivoluzione che potrebbe salvare tutto il comparto della cultura, i suoi lavoratori e le lavoratrici.

Ma per chiudere questa riflessione condivisa vogliamo ostinatamente trovare una chiave che possa darci un segnale di positività. E lo facciamo guardando alla Gran Bretagna, paese che quando parliamo di “cultura musicale” ha molto da insegnare, a partire dal modo con cui fanno comunicazione. Un esempio? A febbraio 2021 è nata LIVE (Live music Industry Venues and Entertainment), una realtà che rappresenta 13 associazioni di categoria, 4000 artisti, 2000 addetti ai lavori e maestranze e 3150 aziende per un valore commerciale di circa 4,5 miliardi annui. LIVE sta già lavorando a pieno regime per i colleghi Inglesi del settore, collocandosi in prima linea per la comunicazione istituzionale e ponendo le basi di un progetto preciso, che chiede e rivendica cose precise, come la proroga di tre anni sulla riduzione dell’aliquota Iva (vat rate) sui biglietti per eventi culturali. Una proposta che, unitamente ad altre richieste, sta già avendo riscontri molto positivi nel parlamento inglese. Anche qui in Italia sono state avanzate (in ordine sparso, appunto…) delle richieste che però attendono ancora una vera risposta da parte delle istituzioni.

 

Ecco, se in UK un settore altamente produttivo come quello dello ‘spettacolo & c.’, attraversato da enormi interessi e da più realtà, è riuscito ad unirsi per fronteggiare una crisi devastante causata dalla pandemia e a parlare con le istituzioni, perché mai in un paese come l’Italia non potrebbe o dovrebbe accadere?

Lo dicevamo all’inizio, è una domanda che sembra semplice, naturale, ma la risposta o le risposte ne dimostrano invece la complessità. Infatti, quello che è emerso dalla nostra chiacchierata con le tre realtà di questo articolo la dice lunga su quanta strada c’è da fare. Eppure non è difficile capire che nonostante sia lastricata di problemi questa è l’unica via per sensibilizzare chi è formalmente preposto a regolare il settore (aggiungiamoci che spesso ha dimostrato di non conoscerlo a fondo). È un vicolo stretto, ma è da lì che bisogna passare, dal trovare un accordo legislativo, se si vuole incidere veramente e trovare soluzioni. Solo così, con regole certe e un giusto riconoscimento economico tra i vari comparti, il nostro Paese potrebbe tornare ad essere fucina di idee e culla della cultura europea com’è stato in altri tempi.
Lo dicevamo prima, vogliamo essere positivi e costruttivi: la cultura è l’antidoto che ci salverà.
Prima ce ne convinciamo (tutti) e meglio è.

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