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Sanremo 2023: gli Ultimi saranno quarti (e di quarto storto)

Vince Marco Mengoni su Lazza e Mr.Rain. Ultimo e Tananai gli altri due finalisti

Teatro Ariston, Costa Crociere e Piazza Colombo le tre location della kermesse

 

Ci si arriva carponi, dopo cinque serate, alla domenica pomeriggio del dopo Sanremo. Fidippide a Maratona, portando la fiaccola, cadde a pochi metri dalla fine, noi tutti, indomiti, abbiamo resistito invece, perché la vittoria, il podio, l’annuncio in diretta, i coriandoli sul palco, non regalano quell’emozione purissima, in una registrazione del giorno dopo. I goal si vedono in diretta e così è stato anche ieri sera. Come da tradizione. Notte alta e sono sveglio cantava De Crescenzo proprio da quel palco, nel 1981, così ci scrivevamo nei messaggi con colleghi e amici, citando forse uno dei pezzi più belli nella storia della manifestazione canora più chiacchierata e discussa del west. Abiti, conduttori, scale, orchestra, al passo con le canzoni, invadono social, schizzi di acido nei tweet, gruppi whatsapp, post e persino scommesse Snai. Un gioco di ruolo collettivo che, per chi lo vive con leggerezza e divertissment, rappresenta un appuntamento annuale irrinunciabile, per chi ha necessità di osteggiarlo a gran voce, raccogliendo ben pochi consensi, un incubo da evitare. Ma, tant’é.

Con un colpo di coda rassicurante si è chiusa l'edizione 20-23, come piace dire ad Ama, di un Festival distonico in cui i salti di puntina sul giradischi sono stati all'ordine del giorno. Non ha funzionato la scalata passivo aggressiva del piccolo Ultimo che frigna da quel dì per spodestare Mengoni, novello Achille, dal primo istante vincitore in una arena popolata dai piccoli dell'Antoniano. Ha avuto cazzimma, furbizia (molta), un pezzo che si apre nel punto giusto e che vola sulle orecchie di chi quello vuole, da sempre a Sanremo. La dedica alle donne, che non erano presenti tra i cinque scelti, il brufolo finale di un fastidio, come se chi merita un podio debba avere una definizione di genere. Come se ogni volta che accade qualcosa nel mondo, di qualunque natura, ormai dovessimo far caso ai maschi e alle femmine, spaccando ancor di più in due l’universo, creando fazioni e schieramenti, in una pericolosissima operazione. Come soprattutto se ci fosse un dolo dietro, quando invece magari, le canzoni arrivate in cima sono semplicemente quelle gradite a chi le ha votate (tendenzialmente un pubblico di ragazze, da stima). Ma questo il mondo vuole oggi, questo vuole leggere nei comportamenti della gente, a tutti i costi, anche forzando le cose, e anche a Sanremo si alliscia il pelo della vulgata preferita. Paura!

 

Morandi meno convulso e sopra le righe di sempre, ha accompagnato Amadeus, sempre più a fuoco su quel palco, nella conduzione in modo impeccabile, soprattutto ci ha steso con l'omaggio a Lucio, cantando come mai, rendendo addirittura meno pomposo un pezzo come Caruso, ammorbidendo tutto: apriti cuore! Il saltarello tra vecchio e nuovo è stato meno evidente delle edizioni precedenti in cui comparivano tra i concorrenti mostri sacri (Berti, Zanicchi) ancora dotati di intonazione; qui l'ancien régime aveva una squadra "giovanile", che però non è riuscita a bucare lo schermo, a imporsi come doveva. Nessuna Oxa, nessuna Giorgia, nemmeno Colapesce e Dimartino, furbettini in giacca e Premio della Critica hanno portato la ciccia. Tutto accennato, tutto blandamente senza una personalità. Ne aveva e ne ha da vendere Madame, che arriva, dice e fa quello che sente e lo comunica; piaccia o non piaccia, chi sta sul palco ha quel dovere: smuovere le nostre panze. Non ci bastano due che si tuffano a capa sotto con un refrain ammiccante, non ci basta nemmeno l'inciso di Mengoni.

 

La morte di Bacharach non è bastata a rimettere le coscienze a posto, per dignità e intonazione. Non hanno sentito il peso del nume che, dall'alto dei cieli, ormai, con la bacchetta gli staccava le falangi, no. Fonici svogliati, intonazioni personalissime, gorgheggi, urla e furori. In tempi incerti come questi, l'occasione di arrivare su un palco come questo e aprire le ali a metà, fa rabbia. Giù dalla torre i monologhi, le lezioncine di sociologia, le carrozzine e le stole. Giù anche la pelle nera sbandierata così male: la Egonu porta un monologo vergognoso in cui telecomandata e invitata come quota nera tra i bianchi è costretta a farci la lezioncina su liberté, égalité, fraternité. Sgonfia, impacciata nel suo eloquio preparato, nulla a che vedere con quello che senza dubbio avrà subìto in un paese bigotto e razzista come il nostro. Meglio sarebbe stato esentarla da questo ruolo scomodissimo e imbarazzante. Bene alcune idee, bene Fiorello che fuori onda e fuori da ogni inibizione prende in giro Ama. Fuori anche Blanco, dietro la lavagna dopo le rose calciate e l'isterismo per un auricolare poco funzionante. Preparato o no, un siparietto abbastanza greve e dimenticabile, che lo bollerà a vita come il bimbo dell’asilo a cui hanno tolto il Didò.

 

Giù dalla torre le canotte, di ogni ordine grado, stoffa e taglio, davvero inquietanti (un anno fa a Truppi furono fatte le pulci, quest’anno ne abbiamo viste di ogni), l'Inno di Mameli ad apertura e chiusura di serate, in piedi, mano sul petto e la tanta retorica del Bel Paese, quello di Benigni, della Ferragni che si scrive una lettera da sola, delle mamme di Giorgio Consolini prima, di Lazza oggi, quelle che son tutte belle quando un bambino si stringono al cuor e che poi, da grandi, scendono in platea a regalare loro i fiori. In questo salotto buono, oggettivamente grottesco, le uscite di schema, i baci tra Fedez e Rosa Chemical, la reunion delle sorelle Iezzi, ciacione impacchettate nell’argento, Grignani e Arisa in un duetto da TSO, i Måneskin a panaro e zizze de fori, da una parte e dall'altra Peppino, Paoli e Vanoni tenerissimi e anziani tanto da sgretolarci il cuore. Un pastiche, al solito, difficile da contenere. Salviamo la gonna a fiori della Marcuzzi, i vestiti della Francini, Elodie che ha fatto tutto a modo, Danilo Rea al piano, i Depeche Mode, la cover di Via del campo di Madame, l'orchestra sempre e comunque, che si fa un mazzo, i fiori bellissimi, Massimo Ranieri sempre e comunque, la chitarra di Alex Britti e il duetto Elisa/Giorgia che è stata una lezione di come si canta e che sarà pagina da conservare in archivio. Giù dalla torre il poco coraggio delle scelte, delle prestazioni vocali, la scarsa presenza scenica di questa nuova generazione figlia dei Teletubbies che arriva in una giostra immensa e emette lallazioni a volte anche poco intonate. Quel palco fa paura a chiunque, nulla da dire, ma studio, costanza, partecipazione e un qualche corroborante per l’umore, se proprio l’entusiasmo non arriva dal di dentro, farebbero meglio.  Ci resta davvero da immaginare che possa essere una edizione di passaggio verso un mondo che deve andare ancora a piombo. Musicale e non.

 

Intanto Paoli ha cantato Il cielo in una stanza a 88 anni, storto, sconocchiato, in evidente difficoltà, lasciandoci confermare che certi brani non moriranno mai e quando si scrivono e si cantano a 60 anni di distanza, travalicano tempo e monitor. Questo fanno le canzoni. Questa è la magia che devono portare. Questo oggi manca prepotentemente.
Riflettiamoci.

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