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Vinicio Capossela

Ballate per uomini e bestie

Chissà se qualcuno ha mai pensato a cosa succede dopo un concerto. Quando tutti si infilano i cappotti e vanno via. Si racconta il durante, la dimensione live. Luci, musiche e cotillons. Ma dopo? Vinicio Capossela si è posto il problema. Tempo fa, in una intervista dichiarò di averci pensato, dando una risposta altamente sensata.
Che in sé, in pochissime parole, racchiude già l’essenza della sua arte: sentirsi come un benzinaio fermo lì ad aspettare che tutti vadano da lui a fare il pieno, prendendo immediatamente la propria strada dopo il rifornimento, lasciandolo da solo: è metafora di vita e di teatro, che in un altro mondo lontano probabilmente sono la stessa cosa. In quello di Capossela, sicuramente.

Erano i tempi del tour teatrale dei calzini spaiati, dei pianini giocattolo, del gigante e il mago. E di acqua sotto i ponti, da allora, ne è passata. Facciamo adesso il giochino al contrario e chiediamoci, a distanza di anni, che sensazione resta all’ascoltatore dopo aver messo sul lettore il suo ultimo disco e averlo fatto girare almeno due volte di seguito, come quando ripetevamo la prima guerra mondiale da portare all’interrogazione di storia per il giorno dopo, facendo attenzione a tutto. Alle date, agli eventi, ai dettagli. Da Capossela, si sa, ci si aspetta sempre sorprese: tira fuori dal cilindro animali, travestimenti, personaggi del circo, incantatori, luci, petali di rosa, cappelli, citazioni letterarie, suoni, scafandri, strumenti, calembour e intensi momenti di commozione.

Questa è la sua cifra, ribadiamo: si sa; le premesse sono chiare. E bisogna stare attenti. Ma stavolta, nel suo undicesimo lavoro, Ballate per uomini e bestie, Targa Tenco 2019 per miglior disco in assoluto, il sacco di Babbo Natale è bello grosso: quattordici tracce in cui affrontare la condizione umana di questa sbilenca contemporaneità, impoverita, svilita, infilata in tempi sciatti sempre meno al passo con umane sensibilità e contatti veri, ma solo reali, mediati da una tecnologia invadente e debordante che risucchia occhi, orecchie, testa, petto (one, two, three). È il racconto dolente di una umanità allo sbando, sempre meno in sintonia con il passato, con le origini profonde da cui proviene; è una denuncia, molto politica, nel senso più stretto e greco del termine, di un tempo cupo, torvo, pestilenziale, in cui ci si muove a tentoni tra la condizione primigenia di bestia, la difficile convivenza con la madre terra e la mediazione operata dal web, gorgo mefitico che inghiotte coscienze e morale. Senza fare un distinguo. Nulla di facile, nulla di così accessibile, nemmeno dopo due giri.

Il disco di Vinicio ha bisogno di studio e di attenzione, tanta. Lo sapevamo, ma non basta. Non solo per la tematica aspra, anticipata da un momento di grazia, Il povero Cristo, sceso dalla croce proprio nel giorno del venerdì santo scorso, come singolo, tra i fili delle radio e venuto tra la gente a incontrare il poco sacro, la povertà spirituale che nega, impoverisce, annienta la buona novella, ma anche per un viaggio sonoro da compiere essendo pronti a tutto, per le allegorie presenti da scovare, per i riferimenti sacri e profani, per le danze morbide alternate a ruvidi graffi e ululati. E allora di nuovo sul lettore, tre e quattro volte e anche cinque, per cogliere l’essenza, tutta, di un disco ipertrofico, più del solito, in cui compaiono bestie feroci, lumache come elogio della lentezza, giraffe che vengono fuori senza permesso, fuochi, testamenti, bisonti e pitture rupestri, lupi mannari e danze macabre. Se a questo pacco grande, ricchissimo, si aggiungono gli arrangiamenti di Teho Teardo, la chitarra di Ribot (che ci riporta indietro a passi larghi, nella produzione di Vinicio, nostalgicamente), lo zampino di Daniele Sepe (ne I musicanti di Brema), chitarre, percussioni, strumenti medievali, ottavini, bassotuba, arpe, violini, viella e zampogne, gli occhi e le orecchie non sanno dove andare prima. Uro apre in maniera perfetta, è un prologo esatto, avvisa, segna la traccia di ciò che ci si aspetta, è il Caron dimonio dagli occhi di bragia che non ci mollerà fino alla fine, all’ultima traccia, mentre il respiro resterà sempre ansimante, vigile, privo di requie. Il suo e il nostro. Mollerà in tre momenti, appena, tre momenti in cui, attraverso riferimenti altissimi La ballata del carcere di Reading (Oscar Wilde), La belle dame sans merci (John Keats) e Perfetta letizia (San Francesco), si intrasente il Vinicio più lieve, la voce si stende, le parole pur se pregne di significati diretti e laterali, arrivano piane a colpire nel segno.

Quel che resta all’ascoltatore, per tornare in cima, alla domanda primigenia, allora cosa è? Un insieme di cose, tante, tantissime, come siamo abituati ad avere da Vinicio, sempre ispirato, sempre generoso, che parlano, cantano, urlano, accarezzano, cercando di essere tutte insieme asservite ad un unico messaggio. Ma forse è tanto, troppo. Forse sbanda ancor di più, se l’intento è proprio quello di mandare un chiaro segnale a una umanità distratta. Difficile immaginare di farlo diversamente per Capossela, ricettivo e pronto a ogni stimolo, affabulatore, mago e creatore unico di mondi immaginifici, ma il rischio che la sovrabbondanza porti fuori, lo si ravvisa. Sembra un disco in controtendenza con una necessità di semplicità, richiesta da lui stesso.
Un paradosso al contrario: ci si vuole riavvicinare al primigenio, ma lo si fa con mille artifici e forse questo convince poco. Resta un dubbio, personale, di dove sia finita la dimensione amorosa per questo artista meraviglioso, poetico, quella che un tempo parlava dritta al cuore, direttamente dai tasti del suo pianoforte e che forse, proprio in tempi bui come questi, e in dischi politici come questo, lo avrebbe aiutato ad essere una lente necessaria per parlarci occhi negli occhi. Da sotto i cappelli. Ballata per uomini e bestie resta un disco affascinante, ma sfiora, usando una metafora cinematografica che tanto piacerebbe al nostro, la mastodontica durata di Ben Hur. La paura è che non tutti siano disposti a star seduti al cinema per (circa) quattro ore. E sarebbe davvero un peccato.

Foto di Simone Cecchetti

 

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Vinicio Capossela    
  • Anno: 2019
  • Durata: 69:10
  • Etichetta: La Cupa/Warner

Elenco delle tracce

01. Uro
02. Il povero Cristo
03. La peste
04. Danza macabra
05. Il testamento del porco
06. Ballata del carcere di Reading
07. Nuove tentazioni di Sant’Antonio
08. La belle dame sans merci
09. Perfetta letizia
10. I musicanti di Brema
11. Le loup garou
12. La giraffa di Imola
13. Di città in città (…e porta l’orso)
14. La lumaca

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