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Gio Evan

Biglietto di solo ritorno

A leggere la biografia di Gio Evan sulla sua pagina facebook quasi ci si stanca, tante cose, tutte tra di loro coerenti, con al centro il nodo focale dell'arte della parola. Tra viaggi, poesie metropolitane, appunti, diari, libri, e anche canzoni. Il seguito che le sue poesie hanno sui social è importante, ovviamente non così tanto da essere da solo motivo di plauso all'artista ma è aspetto da non sottovalutare. I commenti di chi lo segue, a scorrerli velocemente, sono fatti principalmente di parole di affetto e di ringraziamento per aver messo in versi le emozioni di tutti. Facile, direte voi. Ogni pubblico ha per il proprio beniamino parole di dolcezza, comprensione e vicinanza. Sì, è così solitamente. Le poesie di Evan sembrano però in più capaci di intercettare una voglia di romanticismo spinto che non trova specchio in cui riflettersi né nella musica di derivazione indie né tantomeno (per carità!) nella tanto-di-moda trap. Non è di poesia però che siamo qui a parlare, o almeno non solo, ma di un progetto musicale, Biglietto di solo ritorno, uscito lo scorso aprile per l'etichetta MArteLabel. Non solo perché l'album ha a dire il vero all'interno due anime: il disco 1 con le prime nove tracce, con l'aspirazione di essere canzoni, e il disco 2 con altri dieci monologhi su base musicale. 

Qui per ovvi motivi ci soffermeremo solo sul primo disco. 

Lo stile è riconoscibile, basta leggere qualcuna delle poesie di cui sopra, e sarà facile ritrovare al primo ascolto la stessa voce, e lo stesso universo di significati, in queste canzoni. Alcuni spunti interessanti, quelli per cui l'orecchio si ferma e si tende, indubbiamente ci sono in brani più intimi come Posti, A piedi il mondo, e in quello messo a chiusura Infinit; il problema, se vogliamo considerarlo un problema (e ovviamente per chi scrive lo è), è che una canzone non è una poesia con una base sotto a fare da tappeto. Una canzone non è mai la semplice somma delle due parti, poesia-testo e musica, non è il diretto e lineare appoggiare un testo già scritto altrove in un altro tempo su una melodia, bella o brutta che sia, scadente o di qualità poco conta, non è perciò il solo incontro delle due metà di una mela (a voler essere romantici nel modo più banale). Perché è la costruzione e l'incastro tra i due mondi a suscitare interesse in un brano musicale, è quando appare chiaro che quella parola poteva stare seduta su quella sequenza di note e su quella soltanto, è quando accade che metti insieme le due anime, musicale e testuale, e la somma fa tre per magia, e non uno scarso due. 

Poteva essere un buon disco, perché Gio Evan sa scrivere e pare abbia trovato il suo microcosmo di immagini e fotografie a cui dar voce, non lo è secondo me per mancanza di un suono riconoscibile, per l'assenza quasi totale di canzoni nell'accezione di cui sopra, per il latitare di qualcosa che rimanga in testa e ti faccia venir voglia di ascoltarlo di nuovo. Debole musicalmente, troppo debole per essere valutato come disco di canzoni d'autore, come disco di canzoni pop, come disco di canzoni rap…ma qui poco importa l'etichetta di genere, importa che Gio Evan voleva comunicare utilizzando qualcosa di diverso dal terreno consueto della poesia e il tentativo ci sembra poco riuscito, e questo percorso un po' fuori fuoco.

 

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In dettaglio

  • Anno: 2018
  • Etichetta: MArteLabel

Elenco delle tracce

01. Mi manco

02. Posti

03. Joseph Beuys

04. Sabota

05. Pignatte

06. Pane in cassetta

07. A piedi il mondo

08. Biglietto non obliterato

09. Infinit

Brani migliori

  1. A piedi il mondo
  2. Posti