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Francesco Bianconi

Forever

Nella vita si può sempre ambire a qualcosa di meglio. Francesco Bianconi ci crede, ed è uno dei pochi autori rimasti a rivendicare la bellezza della complessità. Il suo primo disco solista, Forever, è un canzoniere che mette in mostra, con pacata sfacciataggine, con eleganza e durezza, con poesia e veracità, le fragilità dell’uomo di fronte alla propria finitudine.

Dalla scrittura collettiva al racconto viscerale, dall’immaginario rurale e post-adolescenziale dei Baustelle alla svestizione, dalle sbornie elettroniche all’osso dell’armonia, Bianconi da solo sprigiona la propria maturità narrativa e vocale. Non a caso “Forever” è un disco in prima persona dall’inizio alla fine. Senza paesaggio, senza sezione ritmica, senza illusione. C’è solo l’io interiore, Zeno Cosini di fronte al suo diario, il pianista davanti ai tasti. Viene volutamente omesso un hic et nunc e, anzi, al centro c’è l’indefinito (reso anche dal titolo) come parallelo della condizione umana. Uno specchio in cui tutti, volente o nolente, si possono guardare.

Il ritmo è dato dalla concinnitas di Bianconi, quella rara dote di rendere armonici versi spesso complessi e fuor di metrica, poggiati su un’impalcatura lessicale cercata con il lanternino. Nelle dieci canzoni del disco si sente sempre un tonfo da digerire. Un tonfo immaginifico e linguistico, dall’alto della letteratura al basso, bassissimo, del reale.

Lì troviamo noi stessi, le nostre vite un po’ meschine e la nostra «stagione di niente». Quello di Bianconi è un flusso di coscienza che, nello spoglio personale, viene fuori in tutta franchezza. Come a dire che a volte la poesia non basta o non serve. «Non è detto che sia morale» (verso di Certi uomini) e non è detto che ci troviamo speranza, ma a volte bisogna solo dare la faccia alla realtà, così com’è. Senza altri fronzoli.

Così come senza fronzoli è la musica. Quasi tutta affidata al pianoforte, lo strumento interiore per eccellenza, che si muove dai sussurri alle litanie, dal barocco al folk. Grazie alle collaborazioni con Rufus Wainwright (in Andante), Kazu (in Go!), Hindi Zahra (in Fàika Lilìl Wnhàr) ed Eleanor Friederberg (in The Strenght), Bianconi allarga i confini del suo disco, che ha un suono credibile dal Nord America al Marocco al Giappone. Un esperimento bilaterale, perché i suoi ospiti si cimentano con l’italiano tanto quanto lui si districa con le altre lingue. I quattro featuring sono anche gli episodi sinfonici del disco, che tanto ricordano l’esperienza monumentale di “Fantasma” (album del 2013). In questo caso, però, si privilegiano le suggestioni della musica (quella del quartetto d’archi Balanescu Ensemble), come in un lied moderno.

Il collante dei brani è l’ambizione. La tensione a svoltare, in un modo o nell’altro. Il desiderio di trovare una misura giusta per affrontare le paure. Tutto è descritto da parole-pietre, messe lì con chirurgia e cantate con mimesi maniacale. Ché a volte è più il suono che il senso delle parole a dare corpo al mondo. Siamo rimasti lì, inchiodati alla paura di vivere fino in fondo anche il dolore, l’amore mancato o perduto, le nevrosi, la solitudine. Siamo rimasti lì a confessare a noi stessi di non farcela. Siamo impantanati eppure così vogliosi di arruolarci e combattere (metaforicamente o no). Siamo bloccati eppure in cerca di una risoluzione. Così innamorati e così fascisti. Così vogliosi di apparire eppure a volte inesistenti.

In questa umanità impantanata e fuori tempo Bianconi mette anche sé stesso. Come in L’abisso, che racconta l’uomo nel suo epico fallimento, nella sua disperata fragilità. La canzone è un’edera che si stringe a una grondaia di nichilismo, con cui ci si ricorda che la vita è una lotta ma la morte non è un demone da sconfiggere. Anzi, è parte della vita stessa. L’abisso raccoglie i mostri e tutto quello che non riusciamo ad affrontare: il mare di nebbia di fronte al viandante, l’antro buio da cui sbuca Babadook, il Leviatano che inghiotte Giona e Geppetto.

Ma l’abisso è anche una metafora della profondità. Girata questa chiave, la canzone (e un po’ tutto il disco) si veste di un’attualità preoccupante, al tempo della massima celebrazione dell’apparenza in qualsiasi campo, dalla comunicazione alla politica (i fascisti in città, i patrioti e il paese bianco come il Ku Klux Klan) alla musica, dove c’è chi scalpita per un posto in televisione e per un contratto dalla discografia morta (un vaso di Pandora che non verrà scoperchiato in questa sede).

Quest’ultima riflessione attraversa Certi uomini, che descrive l’uomo interrato nella sua perdita del senso della misura e nella sua innata mortalità («vivo perché ho voglia di morire»). La svolta sta nel ritrovare la carnalità. Sulla cellula ritmica del pianoforte si accatastano versi sciolti secchissimi, che sono il preludio a un ulteriore tentativo di risoluzione, quello più estremo: tornare lì dove siamo nati. «La fica», protagonista del ritornello, non è sineddoche né metafora, è esattamente quello che rappresenta.

Contestualizzato nel 2020 “Forever” acquista maggiore forza, ma la sostanza di cui è fatto non ha tempo. Ché l’uomo si è sempre guardato troppo (o troppo poco) allo specchio. Come Dorian Gray che, per paura di invecchiare, si è maledetto. Come Orfeo che, per paura di perdere l’amore, lo ha perso per davvero. Come Edipo (citato nella penultima canzone Assassinio dilettante), che per paura di affrontare le conseguenze nefaste delle sue azioni, si è tolto la vista.

In “Forever” non si troverà quasi niente di rassicurante se non l’urgenza di poter, finalmente, una volta per tutte, ambire a qualcosa di meglio. «Lasciamoci indietro tutta questa merda» e cerchiamo il bene. Può sembrare retorico, ma ci abbiamo mai provato veramente?

 

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Amedeo Pace
  • Anno: 2020
  • Durata: 41:51
  • Etichetta: Ponderosa/BMG

Elenco delle tracce

01. Il bene

02. L’abisso

03. Andante

04. Go!

05. Fàika Lilìl Wnhàr

06. Zuma Beach

07. The Strenght

08. Certi uomini

09. Assassinio dilettante

10. Forever

Brani migliori

  1. L’abisso
  2. Certi uomini