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Gabriele Priolo

La prigione dei pupazzi

Quando si trascorre un periodo di isolamento, di prigionia, come è accaduto durante il lockdown, è inevitabile ripiegarsi su se stessi. In tali circostanze affiorano ricordi d’infanzia o dell’adolescenza, emergono immagini oniriche o letterarie sepolte nel subconscio e si possono compiere incursioni nel futuro. Nell’esistenza imprigionata, una volta sottratti i più elementari diritti, gli individui diventano pupazzi. Privati della nostra libertà, siamo come automi, compiamo gesti meccanici, ripetitivi, vuoti di consapevolezza.

La prigione dei pupazzi, il recente album di Gabriele Priolo, è un lavoro complesso e articolato, in cui emergono diverse anime – la scrittura cantautorale, il legame con la terra d’origine, il gusto della sperimentazione – e al tempo stesso coerente. Si tratta del quarto full-length dell’artista dopo Giuseppe degli spiriti (2014), scelto dal Club Tenco nell'ambito del contest "Il Tenco Ascolta", Occidente (2015) e Poetry (2018). I brani che compongono il disco si possono racchiudere in tre ideali capitoli, Ieri, Oggi e Domani, annunciati nei titoli di tre di essi, mentre contenuti e sonorità rimandano a questa scansione temporale, che prende forma in una commistione di differenti modalità espressive. Il progetto si compone di 11 canzoni e tre brevi interludi.

La scrittura dei testi è raramente descrittiva e si fa per lo più evocativa. Molto importante è, per l’artista, il legame con la propria terra d’origine, la Liguria, ed in particolare con località come Santa Margherita, Rapallo, Camogli, che vengono esplicitamente nominate. Molti brani, dunque, sono di ambientazione ligure come la prima traccia, Io, canzone autobiografica che descrive i luoghi in cui l’artista ha vissuto da bambino e rimanda a suggestioni infantili: la nonna ed altri familiari, il treno giocattolo e quello vero, i giochi al pallone con il mitico “Super Tele”, i viaggi in compagnia di un amico, le prime esperienze musicali con Vecchioni e Lolli come punti di riferimento. Anche la più enigmatica Quaalude si ambienta a Genova, in quanto il titolo si riferisce ad una sostanza psicotropa ma anche ad un locale notturno del capoluogo. Qui l’atmosfera è differente e la scrittura procede per associazioni di idee, in modo un po’ allucinato, come sotto l’effetto di uno stupefacente. Sonorità elettriche e cambi improvvisi di stile chitarristico, dal riff rock al ritmo funky, dialogano nelle strofe, in un alternarsi di episodi quasi disconnessi tra loro.

Siamo sempre nel capoluogo nella title track: è Genova, “piena di poeti alla frutta”, l’autentica “prigione dei pupazzi”, così come la Dublino di James Joyce era il simbolo della paralisi morale ed esistenziale dell’Irlanda di un secolo fa. Il brano inizia con una intro di pianoforte e poi entrano violino e chitarra, a cui segue l’armonica. È il brano più folk, con sonorità quasi americana. In una serie di quadri viene descritta la vita in città con le sue contraddizioni, i supermercati affollati di acquirenti - unici luoghi che era possibile frequentare durante il lockdown - mentre la quotidianità si fa vuota e inutile. Il testo rievoca anche i resti diroccati del lazzaretto di Bana, risalenti al 1450, e un suggestivo affresco ivi contenuto, scoperto casualmente dal cantautore due anni fa: il luogo viene idealmente visitato come a voler cercare protezione e guarigione in tempo di pandemia e l’assolo di chitarra arpeggiata finale appare quasi consolatorio. Sorprendente è poi Dra mort , in dialetto genovese, il cui testo è tratto dal Libro delle tre scritture di Bonvesin della Riva del 1274. La canzone inizia con un leggero arpeggio degli accordi sulle note di quarto grado e ci conduce, con la complicità dei controcanti del violino, tra stornelli romani e fado portoghese, in osterie in cui si parla di cibo, di ventri da riempire, di quanto la vita sia breve ed effimera. Paesaggi liguri anche in La Ruta, ispirata all’omonima passeggiata di Camogli: qui una chitarra classica arpeggiata introduce immagini di un passato contadino, caratterizzato dall’alternarsi delle stagioni, per poi lasciare spazio all’ingresso di una solida e suggestiva sezione di archi.

Priolo attinge quindi alla sua cultura letteraria (è un docente di letteratura italiana) nel narrare l’insolita storia de La bimba, brano che costituisce un dittico insieme al seguente, L’uomo. Si inizia con un minuetto e una melodia incantevole suonata da clavicembalo e flauto, sostenuti dopo poche battute introduttive da sonorità barocche, per lasciare spazio al dialogo tra la voce del cantautore e un soprano (Arianna Serra) che interpreta la bambina. Viene tratteggiato un paesaggio mitologico e bucolico, un locus amoenus tra l’Aminta di Tasso e l’Arcadia di Sannazaro. La bimba viene però presa a bastonate, quindi l’immagine spiazzante è quella di un idillio fasullo; si tratta di un divertissement ironico, ma anche amaro, perché il lieto fine viene a mancare e tutta la vicenda diviene allegoria di un mondo capovolto. Anche il brano successivo prosegue per immagini arcaiche, tipiche della poesia del ‘400/’500, con vocaboli ricercati come amaranto, calicanto, agapanto, assonanze e allitterazioni (autunno alligatore, stelle spasimanti). E dopo l’autobiografia iniziale (Io) ci si apre finalmente al confronto con l’altro, anzi l’altra, in una canzone d’amore (Tu) tutta voce e piano, in cui affiorano nuovamente i ricordi di infanzia e di gioventù.

Da questo punto in poi, repentinamente, si cambia genere e registro, come se il cantautore, nella sua prigione, fosse davanti allo schermo di un computer o avesse avuto accesso ad un tunnel spazio-temporale che lo conduce dalla sua terra natale ad un mondo alieno e futuribile. Come spiega Priolo stesso, queste tracce (che potrebbero essere considerate un unico brano sperimentale in quattro episodi) appartengono al genere “Disruptive”, che vuole “fare a pezzi” il concetto di canzone d’autore tradizionale, utilizzando contaminazioni di linguaggi inusuali in composizioni che non rispettano più le regole. Gli stessi titoli sono “tecnologici”: Laser, Android, Volt. Il primo brano della sezione, Domani, è un parlato femminile sulla pandemia con un sottofondo di musica e cori elettronici a cui si sovrappongono poi altre sonorità e strumenti. Il lessico di queste tracce attinge alla scienza ed alla tecnica (fotoni, elettroni, formaldeide, micron) e sono presenti voci campionate: quella della filosofa Lorenza Saettone, quella di Edith Piaf, lo scat di Lucio Dalla in “Lunedì Cinema”, il discorso pronunciato da Edison nel 1919 alla fine della guerra. Cibernetica, robotica, astrofisica vengono mischiate ad evocare un universo “altro” e dis-umano. Sono descrizioni di procedimenti asettici, quasi a voler uscire da se stessi, osservandosi dal di fuori. “O forse, quando si sta in prigione, si osservano i dettagli talmente da vicino che la coscienza si espande” commenta l’autore.

In un dialogo incessante tra interno ed esterno, individualità e alterità, passato, presente e futuro, questo lavoro ha una sua coerenza interiore percepibile solo dopo un ascolto attento e meditato, anche se molti brani sono di presa immediata. La prigione dei pupazzi rappresenta, nelle sue molteplici sfaccettature, una autentica sfida che il cantautore ha affrontato nel voler raccontare di sé, esprimere un disagio e cercare una via d’uscita dalla gabbia di limitazioni rappresentata dalla contemporaneità.

 

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In dettaglio

  • Anno: 2022
  • Etichetta: Autoprodotto

Elenco delle tracce

01. Io
02. Ieri
03. Quaalude (Poeta criminale)
04. La prigione dei pupazzi
05. Oggi
06. Dra mort
07. La bimba
08. L’uomo
09. La Ruta
10. Tu
11. Domani
12. Laser
13. Android
14. Volt

Brani migliori

  1. Io
  2. La prigione dei pupazzi
  3. La Ruta