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The Zen Circus

La terza guerra mondiale

Pericoli imminenti, pericoli quasi auspicati provocatoriamente per i tanti leoni da tastiera che inneggiano a scontri violenti e invocati quasi come un’occasione per uscire da un’apatia pericolosa, da una solitudine globale che ti fa venire voglia di urlare, dall’indifferenza e dall’isolamento della cella dorata ipertecnologica, da una bolla da cui non si esce più per comunicare davvero e da cui non si vede ciò che sta accadendo, finché non ti arriva addosso: questo è il tema di fondo del nono album (in diciotto anni, confermando ritmi di scrittura piuttosto veloci) degli Zen Circus, che lo attraversano con la consueta “ironica crudeltà”, a cui si affianca anche l’essenzialità spietata di un power pop/punk solo voce, chitarre, basso e batteria.

In quest’ottica si esamina anche l’ “estetica” del terrore, l’apparenza vincente del terrorista agli occhi di un bambino, laddove ciò che potrebbe terrorizzare la società potrebbe essere anche semplicemente la libertà di ridere, gridare, “piangere senza dovermi vergognare” contro ogni anestetizzazione dei sensi e della ragione; resta d’altronde una forma di resistenza anche sotto le bombe, quella di continuare a danzare, ma anche la consapevolezza che né la paura o l’amore potranno unirci, perché “siamo soli e bastardi […] pirati dei campi minati per l’eternità” (Terrorista).

I brani del trio pisano ora sono cantilene da cantastorie pop-punk, ora canzoni dritte e dirette, ariose e agrodolci (Non voglio ballare), con la voce in primo piano e melodie che rammentano vagamente nomi come Dalla, ora pezzi punk rock d’impatto, dal minimalismo abrasivo; complessivamente sembrano prevalere suoni più chiari e scintillanti, che talora stemperano le pur asciutte malinconie del testo (v. la quasi festosa San Salvario o il coinvolgente, orecchiabile e ritmato primo singolo Ilenia) e ricordano frequentemente il rock internazionale indipendente degli anni ’90 che è tra le influenze del gruppo, ma non mancano anche ballate rock implosive.

Nei versi dell’album troviamo i fallimenti di piccole esperienze comunitarie, la perdita di fiducia nella collettività, la difficoltà di comunicazione nel rimpallarsi torti e ragioni, il rapporto di odio-amore con la propria città, da cui puoi allontanarti quanto vuoi, “ma l’odore ti rimane” (Pisa merda; cfr. invece altre città come Venezia che incarnano “un ideale che non puoi abbracciare mai e poi mai”); ancora c’è la leggerezza (presentata ambiguamente?) di chi non si preclude nessuna esperienza e non ricerca alcuna morale di fondo nelle sue azioni, oppure la solitudine affamata e disorientata dell’immigrato africano (ma “dalla collina si vede l’Africa / dopo il Po è Africa / è già qui l’Africa”, San Salvario).

Tra le righe di L’anima non conta sembra esserci anche una riflessione personale sugli effetti della fama, che ti circonda di amici veri o presunti, che ti danno pacche sulle spalle, ma i cui complimenti non contano mai quanto quelli delle persone importanti della tua vita; serpeggia qui e lì nel disco anche la consapevolezza del tempo che passa, misurato nell’obbligo sociale del decoro, o nel proprio quotidiano e adulto vivere da soli, senza neanche un cane perché non si vuole essere o avere un padrone. Il trascorrere del tempo è osservato nelle vite degli altri che affollano il centro di passeggini, o nei loro giudizi, anche se “gli anni se ne vanno come sono arrivati”.

Quella del trio toscano è una semplicità forse volutamente impoetica (visto che il Circo Zen programmaticamente non ama indorare la pillola), ma imbevuta di realismo corrosivo; nei testi di Appino vibra un disincanto che non è cinismo, ma è amara ironia sul presente, spesso non filtrata da intellettualismi, ma personale e “popolare” (con l’autenticità genuina e i limiti del caso), espressa con discreti livelli di efficacia. Nel moltiplicarsi dei punti di vista e dei personaggi a cui si dà voce, spiccano alcune istantanee particolarmente vivide come quella di Zingara (Il cattivista), atroce quanto realistico sfogo del tipico nostalgico fascistoide, che difende i suoi “interessi”, la sua “razza” e i suoi animali domestici, ma brucerebbe vivi i rom difesi dai “buonisti” e considera “subumani” “negri marocchini rumeni e musulmani / lesbiche froci”; a chiudere il brano una citazione dal celebre monologo del colonnello Kurtz di Apocalypse Now. Ilenia sfodera una forza genuina, figlia di un carteggio reale con una fan: le sue inquietudini di “giovane ragazza che cerca un posto dove stare nel suo tempo, nel suo corpo e fra i suoi simili”, come hanno spiegato gli Zen, i suoi dubbi, i suoi silenzi, il suo approccio olfattivo al mondo, le sue aspettative di giovane cittadina del mondo diventano occasione per una riflessione affilata su tempi in cui “la piazza è vuota” e “muta”, tempi di “molta prosa” e “troppa noia”, in cui ognuno è il carceriere di se stesso; si tratta ancora di una riflessione su momenti della vita in cui la razionalità e il dovere ti sembrano così soffocanti che si è in attesa persino di un errore. Appino non vuole fare uno scatto predicatorio rispetto alla descrizione fotografica della realtà, perché, anche quando affronta tematiche sociali, resta fedele a una natura a suo modo anarchica che si mantiene ben lontana da prese di posizioni ideologiche: quello che gli interessa non sono le soluzioni, che non ha la pretesa di possedere, ma le domande comuni, mentre anche i “peccati” dell’oggi sono additati dalla band anche in qualità “peccatori” (quasi pasolinianamente restando “dentro l’inferno con marmorea / volontà di capirlo”).

Al Circo Zen poco importa di essere fuori dal coro rispetto al dovere dell’ottimismo, di sentirsi quelli “sbagliati / che hanno sempre da ridire” e rispetto a quello che la gente vuole sentirsi dire nelle canzoni, cioè che “andrà sempre tutto bene / e che l’amore vince ancora / che c’è tutto da scoprire” (Andrà tutto bene): se i sogni sono finiti in un cassetto con i ricordi o sono stati interrotti dalla veglia, basta chiudere le palpebre per ricominciarli, perché “l’oscurità mi chiama a sé / fa male, ma illumina / conforta la mia anima”. Sono gli ultimi versi dell’album, che affida la chiusura a un lungo, splendido brano inquieto, con coda rallentata, oscura e onirica come queste parole, come una fuga nel liquido amniotico dei sogni e dei desideri: sì, anche il Circo Zen qualche rara volta, tra chitarre liquorose, si prende una pausa, assorbendo i rumori in una richiesta di silenzio come una contro-preghiera che finisce per risuonare a tratti sinistra.

Foto: Ilaria Magliocchetti Lombi.

 

 

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In dettaglio

  • Produzione artistica:  
  • Anno: 2016
  • Durata: 45:00
  • Etichetta: La Tempesta – BelieveDigital/Master Music

Elenco delle tracce

01. La terza guerra mondiale
02. Ilenia
03. Non voglio ballare 
04. Pisa merda
05. L’anima non conta
06. Zingara (il cattivista) 
07. Niente di spirituale
08. San Salvario
09. Terrorista
10. Andrà tutto bene

 

Brani migliori

  1. Andrà tutto bene
  2. Ilenia
  3. Zingara (il cattivista)

Musicisti

Andrea Appino: voce, chitarre, testi, musica, registrazione e mix presso 360 Music Factory Recording di Livorno - Ufo: musica, basso, voce - Karim Qqru: musica, batteria, voce - Andrea Pachetti: assistente di studio - Andrea “Bernie” De Bernardi: mastering presso Eleven Mastering di Busto Arsizio (VA) - M.d.m.: testo di 02 (con Appino) - Ilaria Magliocchetti Lombi: copertina e foto band - Fabio Timpanaro: photo compositing e ritocco copertina - Jacopo Lietti: grafica