Viene davvero voglia di dire: “Bentornato, Maestro!!!”
Franco Micalizzi, ad un anno di distanza dal suo ultimo lavoro uscito nel 2012 ed intitolato Veleno, ha realizzato un nuovo album, , sempre in collaborazione con la Big Bubbling Band, per sua stessa ammissione dedicato ad un pubblico più femminile, intitolato Miele.

Se nel precedente lavoro le atmosfere erano più aggressive qui le melodie si placano, diventano più descrittive, anche se rimane immutata la capacità di scrivere brani che, con una naturalezza assoluta si impossessano delle immagini pur non essendo vere e proprie colonne sonore.
L’atmosfera è quella tipica dei “filmoni” anni ’60 e ’70, non tanto per i suoni, che sono attualissimi, e neppure per gli arrangiamenti, perché tutto sommato anch’essi sono in linea con la musica odierna: segno che Micalizzi non si è certo fermato ad allora. E’ l’atmosfera, sono certi stacchi, certi passaggi che, anche senza volerlo, rimandano a situazioni, immagini e sequenze che potremmo definire “vintage”, ma questo è, e non potrebbe essere diversamente, il marchio di fabbrica del musicista e compositore romano.

Il grande ritorno cinematografico del poliziottesco, del western e dell’horror italiano di quei due decenni, il successo, per certi versi clamoroso, di nuovi gruppi come ad esempio i Calibro 35, hanno fatto sì che i protagonisti di quel periodo, attori e musicisti soprattutto, siano tornati improvvisamente sulla cresta dell’onda; una riscoperta indubbiamente meritata, soprattutto perché lo spessore ed il fascino di quelle interpretazioni e di quelle composizioni non solo hanno resistito all’usura del tempo, ma hanno ispirato molti artisti attivi oggi.
Del resto basta ascoltare l’inizio di Miele, la title track che apre l’album, per capire subito che le dodici tracce di questo lavoro sono composizioni di spessore, orchestrate con cura, eseguite con perizia e grande gusto, ed è proprio questo ciò che fa la differenza, ovvero la capacità dei musicisti di “entrare” nel mood di Micalizzi, di capirne e tradurne le intenzioni.

Dal brano lento, suadente, un po’ malinconico, al funk moderato (Cadaquès ha un ritmo contagioso, così come Dedicato, scritto in memoria di Armando Trovajoli), più aggressivo e ritmato, Micalizzi disegna il suo mondo dal sapore retrò (stupendi i fiati in Amèlie), genuino proprio perché ancora ricco di quella artigianalità che si esprime nella cura del dettaglio, nell’attenzione ai suoni, nella capacità di esaltare le timbriche di ogni strumento.

Resta da capire come sia possibile che, per anni artisti di questo livello siano rimasti confinati in una sorta di nicchia, insieme a quei b-movies (ma... siamo davvero sicuri che questa definizione renda loro giustizia?...) che ebbero la ventura di sonorizzare con le loro composizioni.
Meglio tardi che mai, allora, con la viva speranza che questa seconda giovinezza duri a lungo ed allarghi ulteriormente il pubblico interessato a questi suoni che, pur venendo da lontano, sono ancora oggi capaci di raccontare la realtà.

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