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I Gatti Mézzi

Perché hanno sempre quella faccia

I pisani gatti fradici (è proprio questo che significa Gatti mézzi, da pronunciare rigorosamente con la é chiusa, pena far la parte della sfera nel celebre esperimento di Galileo), sono attivi dal 2005, quando Francesco Bottai e Tommaso Novi, titolari della ditta fifty-fifty, decidono di innestare la loro verace vena toscana su un canone della canzone d’autore italiana che va da Gaber a Buscaglione fino a Paolo Conte. D’altra parte, una sintesi già operante e funzionante ce l’avevano anche a portata di mano, il Bobo Rondelli della vicina e “rivale” Livorno (e oggi compagno di etichetta alla Picicca Dischi).

Con Perché hanno sempre quella faccia, figlio di una campagna di crowfunding, arrivano al quarto album ufficiale (il sesto se si contano i primi due, autoprodotti) ed è, nel loro progetto, una piccola rivoluzione. Se fin dagli inizi i punti cardini della loro proposta erano stati il dialetto pisano, i riferimenti a luoghi e persone di Pisa e la conseguente tendenza al bozzetto, spesso salace e goliardico, in questo album il duo mette in campo un palese tentativo di uscire un po’ dalle strettoie di una canzone vernacolare che, se aveva sancito il successo dei Gatti Mézzi in Toscana, rischiava di confinarli in una riserva indiana buona per le fotografie dei turisti estasiati dal pittoresco. Insomma, essere gli eroi del baretto sotto casa può anche essere appagante, per un po’, poi cominci a sospettare che c’è qualcosa oltre quell’universo reso iconico da Stefano Benni prima e da Ligabue poi. La banale, perdonatemi, metafora non è d’altra parte buttata là a caso, essendo il bar, nella variante toscana modello circolo Arci, un loro classico topos, se pensiamo a pezzi come Dar Sarvini (un loro vecchio cavallo di battaglia) o alla recente Io te e il bar.

In cosa consiste, in definitiva, quella che prima abbiamo chiamato piccola rivoluzione? Beh, innanzitutto nell’abbandono totale del vernacolo pisano, e con esso di tutto l’armamentario di facezie, più o meno grevi, che finora erano stati il trademark del gruppo. E quindi, un album tutto in italiano, e più spazio a temi e argomenti più intimi e vissuti (in verità non del tutto assenti anche in passato), alla ricerca di una maturità, di un’apertura verso un pubblico più ampio.  Dal punto di vista della veste musicale, i Gatti non buttano via il bambino con l’acqua sporca, e visto che nel precedente Vestiti leggeri (2014) avevano felicemente lavato i propri panni nel grande fiume dei Sessanta, decennio d’oro per un certo tipo di canzone e musica italiana, anche in questo recente lavoro galleggiano nel mood di stampo Sixties, sempre più risalendo gli argini di quei torrenti di incredibile creatività e ricchezza che sono stati le seminali colonne sonore dei vari Morricone, Umiliani, Piccioni e Co.

E di queste luccicanti (e allo stesso tempo malinconiche) sonorità, che convogliano jazz e umori latini, il disco è davvero intriso, dall’iniziale Ci voleva un divano, in cui su un dialogo iniziale piano elettrico e chitarra si innesta un break di basso e batteria di impronta beat, alla seguente Il mare è una scusa, dove l’ospite di pregio Petra Magoni entra sul finale veleggiando come una novella Edda Dall’Orso su trame che sono puro Morricone. Oppure ascoltate l’italo-lounge che sottende a Con gli occhi conto i panni, o ancora Sassini che sta da qualche parte tra Gino Paoli e il Guardiano del faro. E se qualcosa della vecchia vena ironica continua carsicamente ad affiorare qua e là (I miei amici non si sposano), domina al contrario un che di disincanto amaro che accompagna l’album fino all’accoppiata finale di Mario, fino a qui tutto bene (struggente ritratto del padre morto, contraltare alla rondelliana “Nara F.”) e L’uomo del momento, una ballata piano-voce degna del miglior Fossati, parlandone da vivo.

Dicevamo, tentativo ardito quello di sfidare il proprio pubblico, portarlo altrove, rompere certe convenzioni, con il rischio di perderlo, senza magari acquistare granché fuori da esso. Ma i Gatti Mezzi vincono la scommessa dimostrando di saper scrivere canzoni, perché in loro c’è, palese e vibrante, una sincerità di scrittura, una forza e un’intelligenza che non possono che farceli amare.

 

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Andrea Ciacchini
  • Anno: 2016
  • Durata: 39:00
  • Etichetta: Piccica dischi

Elenco delle tracce

01. Ci voleva un divano
02. Il mare è una scusa
03. I miei amici non si sposano
04. Con gli occhi conto i panni
05. L’estate sbagliata
06. Sassini
07. Io, te, il bar
08. Non cambieremo mai
09. Nora
10. Mario, fino a  qui tutto bene
11. L’uomo del momento

 

 

 

Brani migliori

  1. Il mare è una scusa
  2. Con gli occhi conto i panni
  3. L’uomo del momento

Musicisti

Francesco Bottai: voce, chitarra   -  Tommaso Novi: voce, piano acustico ed elettrico, minimoog, fischio   -    Matteo Consani: batteria  -  Mirco Capecchi: contrabasso, basso elettrico   -   Petra Magoni: voce   -   Andrea Ciacchini: basso, programmazioni, cori   -  Piero Perelli: batteria   -   Simone Padovani: percussioni   -   Giulia Pratelli: cori   -  Francesco Carmignani: violino   -   Carlo Cervi: violino   -   Asitha Fathi: viola   -   Giampaolo Perigozzo: violoncello