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Foxy Lady Ascolta arriva a Milano

Quando si dice che qualcosa nasce dal “basso”, possiamo pensare subito a due cose. La prima è che dalle quattro corde del basso, dalla ritmica, può nascere una canzone (e gli ...

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Gli abbinamenti strumentali più disparati caratterizzano una serie di lavori il cui denominatore comune, oltre all’asciuttezza di mezzi, sembra risiedere nella volontà di evitare l’ovvietà. Quasi sempre riuscendoci.

 

Gli habitués di questa rubrica non si sorprenderanno se una volta di più ci troviamo a parlare di piccoli organici, costruiti più per sinergia d’interpreti che per gerarchie strumentali. Visto che è anche oggi il trio (±1, come recita il nostro titolo) a focalizzare in prevalenza le nostre attenzioni, non troverete, in quanto segue, classici organici con piano, basso e batteria o situazioni analoghe, ma abbinamenti strumentali (e quindi timbrici, in primo luogo) desueti, tali da indurre i musicisti a cercare equilibri diversi. Meno gerarchici, appunto.

È il caso del duo con cui apriamo, che vede il sax soprano di Gianni Mimmo dialogare col violoncello di Daniel Levin (foto in alto), americano del Vermont, in Turbulent Flow (Amirani), cd insolitamente corporeo, a tratti turbolento, nel rispetto del titolo (altrove no), per il sopranista pavese. E non c’è dubbio che sia, con tutta evidenza, l’interazione con Levin (spesso al pizzicato) a generare tale humus.

Ancora un violoncello, nelle mani dell’albanese Redi Hasa, contrassegna il primo dei molti cd in trio che passeremo in rassegna oggi, Gestures and Zoom (Slam), a firma del pianista/fisarmonicista, sempre albanese, Admir Shkurtaj, col dirimpettaio (leccese) Giorgio Distante alla tromba (ma Hasa, da buon trait d’union fra i due coéquipiers, è salentino d’adozione). Disco notevole, avventuroso, vitale e originale, in cui proprio il cello, rispetto a “Turbulent Flow”, risulta l’elemento più discrepante: tanto quanto l’impiego che ne faceva Levin era quasi contrabbassistico, Hasa tende invece al violinistico, con un palpabile aplomb classicheggiante che si mischia alle turbolenze (e ridagli!) del free.

Un altro trio, Magimc, in cui rimane il pianoforte (Thollem McDonas, californiano) e torna il sax (tenore e sopranino, anche insieme, di Edoardo Marraffa), accanto alla batteria (Stefano Giust), anima Polishing the Mirror (Amirani), album votato a un jazz informale robusto e affermativo, nervoso, frastagliato, che a dispetto di qualche raro momento un po’ convulso sa dare di sé un’immagine globale di sicuro rigore e coerenza formale.

 

Voltiamo una prima volta pagina (si fa per dire), tornando al duo e a tracciati più prudenti, inclini a un jazz a sua volta avventuroso ma lungo percorsi più usuali. È quanto accade in Lunar (Schema Rearward), cofirmato dal tastierista Luca Mannutza e dal batterista Lorenzo Tucci. Il cd alterna episodi aperti, creativamente vivaci, con Mannutza al piano, tipo gli ampi Jungle & Space, Moon Boots e Avaria, con altri più prevedibili, in cui imperversa l’organo e prevale un non raffinatissimo tono soul-funky. Tratti comuni, ma lungo percorsi stilisticamente più compatti, si ritrovano in un altro album a due, qui però aperto a una terza voce, le ance dell’americano Blaise Siwula, innestate sulla coppia – ampiamente rodata – composta dal pianista Luciano Troja e dal batterista/chitarrista Giancarlo Mazzù, i quali, in D’istante3 (Slam), praticano un’improvvisazione libera quanto sorvegliata, di tono ora più cameristico, ora più nervoso, attorcigliato, costantemente incline alla sperimentazione.

Se, al di là dell’importanza di Siwula, sono forse i momenti con Mazzù alla chitarra i più stimolanti, eccoci ad aprire una finestra appunto sulla sei corde, oltretutto partendo da un cd strumentalmente simile, con la chitarra del leader, Lanfranco Malaguti (foto sopra), affiancata ai sassofoni di Nicola Fazzini e alla batteria di Luca Colussi, con l’aggiunta, a spot, dei magici flauti di Massimo De Mattia, che verso la fine duetta anche col solo Malaguti. Dal duo al quartetto, quindi, in Galaxies (Splasch), anche qui libera improvvisazione pilotata, di tratto non di rado espressionistico (ciò che Malaguti praticava poco, fino a qualche anno fa), laddove in un altro cd, ancor più massicciamente chitarristico, Flash (Setola di Maiale), dove il nome del trio, Elleffedi, sta per Lodati (Claudio), Fontana (Antonio), entrambi chitarristi, e Detesta (Tommaso), basso ed elettronica, si battono sentieri più effettistici, anche spregiudicati, in fondo insiti nello strumentario. Non tutto marcia sempre a dovere, a volte la musica risulta un po’ troppo plastificata, quasi disumanizzata, ma gli episodi degni di nota (Look Out Below, Django, Kundalini Tantra) non mancano.

 

Più prossimo a certi turgori del rock sperimentale che al jazz è anche il nuovo dvd di Andrea Rossi Andrea, “per brevità chiamato artista”, come direbbe De Gregori, visto che, dopo cd di mezz’ora scarsa, questo Kath’hypocheimenou (Fondazione Morra) sfiora appena i dieci minuti, documentando la mini-performance del bassista (e parecchio altro) vicentino abbinato alla parola detta del filosofo Romano Gasparotti e alle movenze coreutiche di Valentina Moar, assaggio di un’arte certamente fascinosa. Come fascinoso è anche l’ultimo cd che incontriamo, Zarja-Tay (Rudi Records), altro trio, con la cantante turca Saadet Türköz (foto qui sopra), il bassista friulano Giovanni Maier e il percussionista sloveno Zlatko Kaučič. Fra contemporaneità e afrori ancestrali (specie grazie alla voce, che svaria dal recitativo al parossistisco, dal corporale al – quasi – liturgico), il disco si precisa via via di estrema originalità, concettuale quanto emozionante. Notevole, insomma.        

 

 

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