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6 corde, 88 tasti

Chitarre e tastiere (pianoforte ma non solo) occupano il cuore dell’odierna perlustrazione nell’attualità discografica di marca jazzistica

 

Oggi ci occupiamo – lo facciamo spesso e non è certo una novità – dei due strumenti-guida sul versante armonico, jazzistico e non: chitarra e pianoforte. Partiamo, come sempre, dall’infinitamente piccolo (citando Branduardi), cioè il solo, che nello specifico coincide col cd Morfocreazioni I-IV (Setola di Maiale) del chitarrista-effettista friulano Alessandro Serravalle, il quale lo descrive come fondato “sull’improvvisazione e su una sorta di dialogo con me stesso sulla base dell’emergenza di forme sonore, spesso impreviste ma sempre figlie di un’idea o di un mood di base”. Poco da aggiungere, se non che il risultato è uno sperimentalismo abbastanza estremo da sorseggiare in favore di stato d’animo.

Un discorso simile può allargarsi ai due dischi successivi, gravitanti attorno alla chitarra, sempre molto effettata, del romano Adriano Lanzi. Trattasi di Mu (Slam), in duo col violoncello di Federica Vecchio, che riprende il titolo di due memorabili album del ’69 a loro volta in duo fra Don Cherry e Ed Blackwell, e K-Mundi (Off), che è invece in trio con percussioni e parecchia elettronica. Nel primo caso a colpire è in prima battuta l’impasto timbrico fra i due strumenti, che alla lunga determina tuttavia situazioni un po’ ripetitive e reiterate, pur nel segno di un sostanziale buon gusto, laddove in “K-Mundi” l’elettronica prende decisamente il sopravvento, generando, fra alti e bassi, magmi spesso nervosi, anche un po’ confusi, entro cui si finisce comunque per apprezzare (come del resto in “Mu”) il rigore della proposta.

Torniamo al duo con The Music of Carla Bley (nusica.org), uno degli svariati album dedicati alla Bley per i suoi recenti ottant’anni. Ne sono responsabili, in un clima che fa sostanzialmente il paio con i precedenti cd, il chitarrista friulano Andrea Massaria e il ben noto batterista americano Bruce Ditmas (nella foto in alto nei suoi anni gloriosi). Domina anche qui un effettismo piuttosto spinto, con una partenza (sulle note del più noto tema della Bley, Ida Lupino, nonché nel successivo And now the Queen) piuttosto vitale, in crescendo di tensione, che poi si ritrova solo a sprazzi nel prosieguo del lavoro, di conseguenza compiuto solo in parte (anche come tributo).

Con l’aggiunta di un tastierista-clarinettista (Dave Newhouse, membro fondatore dei Muffins), il duo chitarra/batteria (qui Luciano Margorani e Federico Zenoni degli LA 1919) si ripropone in Beauty Is in the Distance (ADN), che trasmette un bel senso di libertà, sperimentalismo e trasversalità (il jazz è solo uno degli ingredienti, e neppure il principale), laddove il più canonico trio artefice di Triplain (Improvvisatore Involontario) di Paolo Sorge sorprende per più di un verso per l’eccessivo rispetto di una formula largamente collaudata, almeno conoscendo gli usi del chitarrista catanese e dei suoi compagni (Gabriele Evangelista, contrabbasso, e Francesco Cusa, batteria). Non mancano del resto episodi più degni delle attese (Floating, Ciclosfera e la titletrack).

In quartetto con raddoppio delle chitarre, ecco Boiler (Splasch), reincarnazione (con nuovo organico) di un storico gruppo attivo a cavallo fra anni Ottanta e Novanta, Dac’corda del torinese Claudio Lodati (foto sopra). Il disco parte a sua volta non del tutto a fuoco, un po’ facile, funkeggiante, per prendere corpo via via, in particolare dal quarto brano, Corsari (glorioso: così s’intitolava il terzo e fino a ieri ultimo album del gruppo, anno di grazia 1991), toccando forse il suo vertice nel settimo, emblematico fin dal titolo, visti gli ultimi accadimenti, Fidel, nel rispetto del suo godibilissimo humus centroamericano. Notevole, e a sua volta già noto, anche il conclusivo Il vulcano.

Un altro quartetto, qui però con un’unica chitarra (il leader, Santi Costanzo, catanese come Sorge, di cui è stato allievo) e senza basso, e invece con due polistrumentisti ad ancia, è protagonista di Deeprint (Improvvisatore Involontario), al crocevia fra libera improvvisazione e serialità, nonché in possesso di un suono definito e di solide strutture, anche originale, salvo qualche episodica rigidità.

Si torna al trio, ora con un’unica ancia, il clarinetto (anche basso) del leader Francesco Chiapperini¸ più chitarra e piano (anche elettrico), in Paradigm Shift (AUT), album ideale per guadare dalla sezione chitarristica a quella pianistica della nostra odierna rubrica. Il disco carbura poco per volta, in avvio sorprendendo un po’ per la distanza dal precedente, molto apprezzato, “Our Redemption”, poi crescendo alla distanza, in un clima ora scuro, ora più nervoso, elemento, quest’ultimo, che prevale in Aki Takase / Daniele D’Agaro (questo il titolo del cd, Artesuono), con la pianista giapponese (foto sotto) e il clarinettista (e sassofonista tenore) friulano a duettare con bel piglio (ma qua e là anche sano deambulare cogitabondo) lungo dieci brani a loro firma più o meno equamente divisi, più il monkiano (e raro) Raise Four.

Detto che D’Agaro, sempre per Artesuono, ha appena edito anche il collettivo (quintetto) The Dixieland Stumblers, curioso album di revival che esula dagli orizzonti della nostra odierna puntata, veniamo al trio del veterano pianista Enrico Intra, classe 1935, che nel rispetto dell’abbinamento con Paolino Dalla Porta (1955), contrabbasso, e Mattia Cigalini (1989), sax alto e soprano, ha intitolato il suo ultimo album Three Generations (Alfa Music), giocando anche sul tema dell’albero (in inglese tree, com’è noto), come la cover del cd ci dice chiaramente. Il disco consta di 17 brevi cellule (da A a S) in improvvisazione totale (ma strutturata). Come quasi sempre in questi casi, gli esiti sono un po’ altalenanti, peraltro tendenti al bel tempo (specie strada facendo).

 

Altro piano trio, stavolta di struttura standard, per il secondo dei tre doppi cd (Trio Music vol. II, appunto) che il Parco della Musica sta dedicando a Franco D’Andrea, nello specifico affiancato dai fedelissimi Aldo Mella, contrabbasso, e Zeno De Rossi, batteria, lungo oltre due ore di musica libera quanto rigorosa, ora più “nel solco”, ora giocata sul filo di rasoio, in una scommessa continua che ancora una volta, a bocce ferme, possiamo ritenere vinta. In attesa del volume 3…

Chiudiamo con un ultimo cd che vede impegnato ancora Zeno De Rossi, nello specifico in duo col pianista, una volta di più friulano, Giorgio Pacorig. L’album, Sleep Talking (Artesuono), si divide fra temi originali e pagine di Ornette Coleman, Randy Newman, Morton Feldman e Charlie Haden, e appare sempre un po’ alla ricerca di un’identità precisa, inglobato in una sorta di limbo anche qualitativo che nei brani di Coleman e Newman e nelle ultime due pagine di Pacorig sembra regalarci il meglio.

 

Foto di Rollo Phlecks (Ditmas), Roberto Fusco (Lodati) e Klaus Muempfer (Takase).

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