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Campioni europei e orchestre a gogò

Si può rileggere Monk o Westbrook, si può guardare all’America, oppure chiamarsi Schiaffini, Surman, Garbarek e dire la propria (da decenni) nell’ottica di un linguaggio schiettamente europeo, tra jazz, musica contemporanea e rimandi folk. Non disdegnando i grossi organici. 

Che il jazz europeo non viva più di sogno americano (riflesso) non dovrebbe più essere un segreto per nessuno da almeno trent’anni (per altri versi da oltre quaranta). Ciò non significa che tutto ciò che si suona in Europa in un’ottica di ascendenza afroamericana possieda le stimmate dell’originalità (cioè della specificità continentale), perché ancora troppi seguitano a ritenere il jazz un codice largamente storicizzato e come tale di derivazione – appunto – americana, ma per buona sorte molti sono i musicisti che da tempo ritengono di poter dire la loro, autonomamente.

Fra questi pionieri, che nello specifico battono una data bandiera fin dagli anni Sessanta, non mancano gli italiani. Uno di loro è di sicuro Giancarlo Schiaffini (foto in alto), recente protagonista di almeno tre produzioni degne di nota. La prima è un libro, E non chiamatelo jazz (Auditorium), magistrale trattato sull’improvvisazione tout court. Gli altri due sono cd, a iniziare da Live in Ventotene (Rudi Records), che vede il quasi settantenne trombonista romano dialogare con Antonello Salis, la cui fisarmonica appare il principale motore dell’incisione (risalente al 2002), in particolare nell’iniziale trittico di brani solitari, e col percussionista iraniano Mohssen Kasirossafar. Nei duetti e trii che seguono, imperversa un’improvvisazione ora più magra, pilotata, ora allo stato più brado. E non sempre tutto marcia per il verso giusto.

Fortemente strutturato è invece il doppio E(x)stinzione (Splasch), registrato dall’Enten Eller Orkestra, emanazione/ampliamento dell’omonimo quartetto, nella primavera di quest’anno a Ivrea per il venticinquennale del succitato quartetto. Schiaffini ne è ospite, così come Laura Conti, voce (anche recitante), Carlo Actis Dato, sassofoni, e Marcella Carboni, arpa, il tutto sommato all'attuale nucleo di Enten Eller, con i membri fondatori Massimo Barbiero, batteria, e Maurizio Brunod, chitarra, più Giovanni Maier, contrabbasso, e Alberto Mandarini, qui nella duplice veste di trombettista/flicornista e arrangiatore/conduttore dell'Orchestra d'archi Bartolomeo Bruni di Cuneo, a sua volta ospite dell’evento (questo lo è davvero) come una sorta di alter ego della frangia più squisitamente jazzistica del megaensemble. Il risultato è un lavoro ricco, variegato, di tratto anche teatrale, che non è neanche il caso di provare a raccontare. Peccato solo che non si sia optato per il formato dvd. Da non perdere, comunque.

In prevalenza orchestrale è anche Rudy, Nellie & Nica (AlmaR), frutto di un più ampio tributo rivolto a Thelonious Monk nel trentennale della morte (1982) da Vicenza Jazz, rassegna da sempre votata a omaggi al grande ceppo jazzistico, però da una prospettiva non banale o supina. Questo cd, in particolare, ha al centro la Lydian Sound Orchestra diretta (come la rassegna) da Riccardo Brazzale, ma in un percorso frastagliato pone fianco a fianco riletture monkiane dell’orchestra (le più ingegnose) con quelle di altre entità, due delle quali firmano, sempre su AlmaR, altrettanti album in tema: Corner Brilliance del trio di Pietro Tonolo, in possesso di una bella sonorità d’insieme anche se magari non proprio originalissimo, e Monk’s Favorities, in cui Paolo Birro, in piano solo, rilegge (in maniera impeccabile quanto canonica) alcuni degli standard più amati (e suonati) da Monk.

Un’altra orchestra votata alla rilettura di pagine altrui è l’Artchipel diretta da Ferdinando Faraò in Never Odd or Even (Music Center), solo che gli autori (e il relativo linguaggio) sono qui squisitamente europei, lungo quel particolarissimo crinale tra jazz e rock che ha illuminato la scena inglese a partire dai tardi anni Sessanta. Stiamo parlando in primo luogo dei coniugi Mike & Kate Westbrook, e poi di Alan Gowen, Dave Stewart, Fred Frith, più – se vogliamo – quel Pip Pyle a cui è dedicato l’ultimo dei nove brani, Big Orange, unico a firma di Faraò, mentre il glorioso chitarrista Phil Miller è ospite in tre pezzi. Ci sono momenti più epidermici (stranamente proprio quelli targati Westbrook, del quale la copertina del cd riprende in toto quella del glorioso “Love Songs”, 1970) e altri di maggiore sostanza, per un lavoro in cui l’elemento-voce, proprio come negli storici ensemble westbrookiani e più ancora tippettiani, gioca un ruolo essenziale. Non senza vette ragguardevoli.

Proprio nei gruppi di Mike Westbrook, fin dal ‘67, iniziò a mettersi in luce uno dei massimi alfieri del jazz europeo in senso assoluto, il posiltrumentista John Surman (foto sopra), che giusto quarant’anni fa, nel settembre 1972, incideva il primo di una lunga serie di album solitari (in sovraincisione), il cui ultimo capitolo, inciso nel giugno 2009, è appena uscito su ECM. Non ci sono novità di rilievo, rispetto ai precedenti, ma ogni nuovo solo surmaniano è un appuntamento fisso per tutti i fan dell’oggi sessantottenne musicista inglese. E di regola non delude, come questo Saltash Bells, con un Surman che si districa fra tre clarinetti e altrettanti sassofoni, armonica e synth (tutto secondo abitudine, del resto), generando atmosfere fra il solenne e l’onirico, sempre con un piede in quella memoria folklorica a cui si accennava poco fa.

Quest’ultimo tratto è da sempre ancor più netto nella musica di un altro senatore del jazz europeo, il norvegese Jan Garbarek (foto qui sopra), che un altro recente cd ECM (in questo caso doppio), Sleeper, ci restituisce in una performance giapponese addirittura del 1979 in seno al cosiddetto “quartetto europeo” (in alternativa al coevo “quartetto americano” con Dewey Redman, Charlie Haden e Paul Motian) di Keith Jarrett, completato da altri due scandinavi di lusso, il bassista Palle Danielsson e il batterista Jon Christensen, ovviamente con Jarrett al piano (nonché alle percussioni) e Garbarek su sassofoni (per lo più il tenore), flauto e pure lui percussioni. Sono sette ampi brani che non fanno che ribadire quanto il gruppo percorresse strade assolutamente originali, in cui la componente europeista era tutt’altro che minoritaria. Garbarek particolarmente sugli scudi, e comunque grande musica per buona parte della sua ora e tre quarti. Dissepoltura benedetta, quindi.


Foto di Alberto Bazzurro

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