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Dente e Vasco Brondi. Supposti ermetismi

Dente e Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica) sono i due cantautori più gettonati della scena alternativa italiana. Sono, come si dice, due esponenti dell’“Indie”.

Ora: io non credo che la parola “Indie” significhi molto a livello musicale, soprattutto al giorno d’oggi. Servirebbe però un articolo intero per parlarne, quindi spostiamo il tiro.

Un altro elemento che sembra accomunare i due cantautori è quello che di solito, superficialmente, viene indicato come l’“ermetismo” dei loro testi.

È una storia vecchia quella dell’ermetismo per i cantautori e, sicuramente, uno dei principali protagonisti di questa storia è Francesco De Gregori. Leggiamo le sue parole:

«Credo che nacque in quel periodo [Alice non lo sa, 1973 n.d.r.] questa storia dell’“ermetismo”. Io non l’ho mai capita questa storia, mi sembra una forzatura critica un po’ grossolana: se proprio dovessi dire che Alice somiglia a qualcosa direi che somiglia a una poesia dada o a un quadro cubista»[1].

Parole precise e lucide, quelle di De Gregori. Nata sotto il Fascismo e senza un ufficiale riconoscimento, l’esperienza ermetica ricorre a tutto ciò che è cifrato come atto d’accusa all’oppressione, cercando una via diversa che deve rifiutare la realtà.

Senza addentrarci troppo, i testi di De Gregori invece andavano verso un discorso principalmente formale e artistico, traduttivo: una stilizzazione della forma propria del percorso delle avanguardie: dal cubismo, dadaismo, fino al surrealismo. [2].

Insomma: quella di De Gregori è una scelta artistica e formale; quella degli ermetici era una esigenza precisa, una costrizione della realtà, un’aderenza vincolante alla storia.

In questo articolo cercherò di motivare il seguente assunto: i testi di Dente derivano dalla tradizione che mi si permetta di chiamare “degregoriana”, rappresentandone una deriva manierista, una degenerazione depotenziata; i testi di Brondi, al contrario, sono quelli che più si avvicinano proprio alla temperie dei poeti ermetici.

Due poli opposti, quindi. Vediamo un po’.

Non credo sia assurdo pensare alle canzoni di Dente come a un’attesa, un tappeto di concetti su ritmo e musica da atmosfera, che si mantengono fuori dal realismo e dal naturalismo della lingua quotidiana e che temporeggiano per la metafora un po’ più azzardata, il gioco di parole che giustifichi quella stessa attesa.

Quando questa metafora arriva, si capisce che quel gioco di parole non scuote se non a livello puramente verbale; si capisce che l’attesa non è stata ripagata e che – anzi – non abbiamo fatto altro che ridurci in uno stagno di parole, dove manca la narratività del dettato testuale. Le figure retoriche non servono la struttura della canzone ma, al contrario, troppo spesso è la canzone che si costruisce loro attorno.

Rare sono le eccezioni, e a questo punto credo confermino la regola.

Quand’è che Dente infatti esce da questa regola? Quando costruisce il tutto come una meta-canzone. È il caso di A me piace lei (L’amore non è bello, 2009) o Casa tua (Io tra di noi, 2011). Prendiamo quest’ultima: dopo i “pali di palafitte” e immagini del corpo di lei, immagini che comunque spesso esauriscono la propria forza nel calembour, c’è un trauma d’arrangiamento e queste parole:

Questo è quasi tutto

quasi tutto quello che ho scritto

alzandomi dal letto,

inciampando nei tuoi fogli da disegno

in quella notte poco complicata,

in quella notte senza vestiti,

in quella notte dentro casa tua.

E adesso lo sai.

Tutti i “fondi del mare profondo” o i “nascondimenti di nascondigli” precedenti, le raffinate ma spesso pleonastiche parole della prima parte del testo, diventano strumento schernito e stigmatizzato da questa ultimissima parte; acquistano cioè un senso che altrimenti sarebbe stato abbastanza epidermico e stagnante (sia chiaro che il mio insistere su questi aggettivi in questo articolo non vuole essere casuale). Ecco: troppo spesso le canzoni di Dente si esauriscono in quella prima parte.

Di fondo sia in Dente che in Brondi c’è una malinconia, anche se derivante da cause profondamente diverse: esistenziali o sentimentali nel primo; sociali nel secondo. Solo che in Dente queste malinconie si traducono in sterili bug della lingua, figure retoriche che lo trasformano in un involontario Bartezzaghi con pretese poetiche ostentate.

In Brondi, invece, le parole non servono se non come pre-testo – dove chiaramente il termine ‘testo’ è inteso in senso semiotico – e le immagini che dà sono accatastate come rottami di uno sfasciacarrozze in una periferia metropolitana (e ne hanno anche lo stesso sapore di metallo): è inutile andare ad analizzare le carcasse, l'impressione che danno da lontano basta e avanza. Le parole in Brondi valgono poco più di zero eppure sono di un espressionismo profondo. In Dente sono quasi tutto ma troppo spesso agiscono non più che epidermicamente.

Brondi non canta, perché non può cantare, perché oggi è assolutamente impedito il canto. Il suo movimento si ascrive pienamente nella temperie della canzone d’autore più pura, perché ne è la sua antitesi, è “canzone d’autore in negativo”, che distrugge il rapporto testo-armonia-melodia e, così facendo, si pone comunque in maniera dialettica con esso. L’assenza di importanza sulle parole dà alle parole stesse una importanza mostruosa. Ce ne fa sentire la mancanza. Brondi costruisce frasi ermetiche, pensieri sinestetici che sarebbe davvero da ingenui provare a decrittare. Non vogliono dire niente se non l’impressione che lasciano. Zero semantica; pura evocazione.

L’unico modo possibile è, semmai, il grido, che annulla il codice misto di parole e musica:

«Cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni Zero!?»

(La lotta armata al bar, “Canzoni da spiaggia deturpata”, 2008)

Con melodia e armonia che non possono far altro che restare mute.

Così facendo, distruggendo questo rapporto testo-armonia-melodia, che è l’elemento principe della canzone d’autore nella sua accezione storica, Brondi si pone con essa allo stesso modo in cui il punk si poneva col rock, e soprattutto con l’art-rock di deriva progressive: stessa urgenza comunicativa, che sfrutta la pura decostruzione.

Spesso ci si chiede come Brondi potrà proseguire la sua carriera; i più pensano che non possa far altro che ripetersi per mancanza di tecnica e virtuosismo linguistico. Beh: tutto ciò è davvero poco interessante, perché questa distruzione della parola e della semantica, del rapporto testo-armonia-melodia, questo grado zero della canzone d’autore ha davvero la valenza artistica di una rivoluzione per la canzone italiana e descrive a meraviglia i tempi che corrono.

Io credo che per nessuno come per Brondi sia possibile parlare di ermetismo in canzone. L’aggettivo, lo abbiamo visto, in passato è stato usato troppo e male, iniziando appunto negli anni Settanta con De Gregori. L’ermetismo è qualcosa di preciso, successo in Italia in anni in cui non si poteva cantare, quando il Fascismo calpestava il cuore a lutto dei poeti: Pratolini, Gatto, Bigongiari, Luzi e pochi altri; pochi e precisi autori. L’ermetismo è una versione apocrifa della realtà, una versione nascosta, sicuramente alternativa. L’ermetismo è impossibilità del canto.

Dente è ermetico per vezzo, epidermicamente. Brondi lo è per necessità.

Chiudo con una vicinanza secondo me impressionante, che però – sia chiaro – vuole essere esclusivamente evocativa: non credo che si possa descrivere lo stile di Vasco Brondi meglio che con la poesia di Quasimodo Alle fronde dei salici del 1947, che proprio dell’ermetismo parlava, usando un linguaggio persino simile:

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull'erba dura di ghiaccio, al lamento

d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

 


[1] F. De Gregori, Da Alice non lo sa a Scacchi e Tarocchi, dal fascicolo allegato a un cofanetto della Bmg Ariola, a c. di V. Mollica, 1989, ora in Francesco De Gregori. Battere e levare, a c. di V. Mollica e V. Pattavina, Einaudi, Torino, 2004, pag. 224.

[1] Per approfondire questo punto mi sia concesso di rimandare a P. Talanca, Ermetici e integrati. A proposito delle canzoni di Francesco De Gregori, in “Musica e parole. Storie, tracce, temi della canzone d’autore italiana”, Foggia, Bastogi, 2007, n. 2.    

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