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In Si bemolle

Ance e ottoni tutti nella stessa tonalità rappresentano il fil rouge di questa nostra (trafficata) puntata odierna. Con un’eccezione.
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Puntata ricca, oggi, frutto dell’iper-produzione tipica di quando si avvicina la scadenza del Top Jazz (i risultati sono, come sempre, su Musica Jazz di gennaio) ma non solo. Puntata ricca, e quindi tendenzialmente onnicomprensiva. E invece no, o almeno non proprio, visto che tutta la quindicina di dischi di cui ci occupiamo, tranne l’ultimo, ruota attorno a strumenti in si bemolle, da cui il nostro titolo.

Partiamo dalle ance, nello specifico dal clarinetto, anzi dai clarinetti, e da un album solitario, Fili (Niafunken) di Marco Colonna (ben piazzato nel succitato Top Jazz), in realtà molto attivo soprattutto nei lavori solo digitali, o “liquidi”, come si dice, quindi senza la “solidità” del cd in quanto tale, che qui invece c’è ed è di ottimo livello, come più o meno sempre per il clarinettista romano qui impegnato sul modello sia canonico che basso (anche sovraincisi), entrambi appunto in si bemolle. Album notevole, in più momenti degno di opere analoghe di illustri colleghi come i francesi Portal (soprattutto) e Sclavis, nel segno di uno sperimentalismo mai accigliato o presuntuoso.

Ancora attorno ai clarinetti (qui anche contralto, in mi bemolle) si muove il bellissimo Kakuan Suite (We Insist!) del Trio Pipeline, creatura di Nino Locatelli (appunto il clarinettista), qui con due notevoli partner quali Andrea Grossi, contrabbasso, e Cristiano Calcagnile, batteria. Uscito su vinile in 150 esemplari (ciascuno con litografia numerata e firmata di Maria Borghi), l’oggetto è prezioso su più piani, musica in primis, ovviamente, elegante ma mai asettica, rigorosissima quanto cangiante. Degno di nota anche I bemolli sono blu (Simpaty/TRJ) del pianista milanese Antonio Bonazzo, che vi dirige il suo AB Quartet in cui milita fra gli altri l’ottimo (già per precedenti lavori, suoi e non) clarinettista (stesso strumentario di Colonna) Francesco Chiapperini. Musica forse meno ardita dei due cd precedenti ma non per questo derivativa, anzi con una sua linea piuttosto precisa, chiara, riconoscibile.

Sperimentalismo a gogo, per contro, passando alla famiglia dei sassofoni, in Alimurgia (Oaxh Hobo), in duo fra Luciano Caruso, sax soprano, e Nicola Guazzaloca, pianoforte. Come sempre, quando c’è di mezzo Caruso, non può non venire in mente Steve Lacy, il che non è un difetto, anzi, anche perché i terreni battuti sono comunque originali, netti, creativi, come del resto in Trio Geometrics (Dodicilune) dell’altro sopranista Emanuele Passerini, con due illustri partners quali Tito Mangialajo Rantzer, contrabbasso, e (soprattutto) Tiziano Tononi, percussioni. Album magistrale, in cui la memoria lacyana non è meno palpabile (c’è anche un brano suo, Deadline – The Crust), rigoroso quanto gustoso, godibilissimo.

Certo non esente da influssi lacyani (e liebmaniani, per sua stessa ammissione) è Roberto Ottaviano, a sua volta sopranista, il cui Resonances Rhapsodies (Dodicilune) è stato eletto miglior disco italiano del 2020 dal citato Top Jazz. L’album, doppio, si sviluppa attraverso sedici brani, sette dei quali (cd 1) per un magnifico ottetto con strumenti raddoppiati (due ance, e la seconda è ancora il clarinetto di Colonna, anche qui esemplare, due pianoforti, due contrabbassi e due batterie, nomi sempre di gran livello), gli altri nove (cd 2) in quintetto con la perdita di un piano, un basso e una batteria. Il risultato è lussureggiante specie nel primo cd, veramente splendido, di un’opulenza che verrebbe da definire coltraniana, laddove il secondo batte strade per forza di cose più circoscritte, anche se non per questo meno incisive.

Passando al sax tenore, uno dei maggiori specialisti nostrani ne è certamente Antonio Marangolo (foto in alto), che in Le mal d’Afrique (Quattroetrentatre) vi guida il quartetto State 114 in una notevole live performance in quel di Ragusa (settembre 2019), confezionando un lavoro perfettamente compiuto, compositivamente – come sempre in Marangolo – attentissimo, puntuale, personale, col sax baritono (in mi bemolle) di Carlo Cattano e basso e batteria nelle mani di Alessandro Nobile e Antonio Moncada, tutti siciliani, gli ultimi due protagonisti anche di un altro bel cd della stessa etichetta (il cui nome si rifà al celebre brano di John Cage, totalmente silente), Naturale, il cui terzo incomodo è il trombone dell’olandese Wolter Wierbos (foto qui sopra). Disco ricco e corporeo, assolutamente godibile pur se tutt’altro che mansueto.

Un altro trombone, nelle mani di Glenn Ferris, fa bella mostra di sé in Frizione (Das Kapital) del senese Romano Pratesi, sax tenore e clarinetto basso, che nelle sue frequenti trasferte parigine ha formato un notevole sestetto internazionale (lui e Ferris, losangelino, più un danese e tre francesi, tutti musicisti ben noti) felicemente coeso (anche compositivamente: gli otto brani si devono a tutti i membri del gruppo), solido e brillante.

Passiamo alla tromba, anzi a una delle trombe per antonomasia, Paolo Fresu, che in L’equilibrio di Nash (Tuk) duetta col suo pianista storico Roberto Cipelli lungo diciassette brani per metà del solo Cipelli, primo artefice del cd, o del duo e per il resto di autori vari, con dentro Alfonsina y el mar, molto in auge in tempi recenti, Parlami d’amore Mariù, Coraçao vagabundo di Caetano Veloso e poi Monteverdi, ecc. Grande classe e souplesse, con un Fresu spesso sovrainciso a strumento aperto e/o sordinato. Un altro duo trombettistico è al centro di Dialoghi & Progressus (Notami) di Gabriel Oscar Rosati (anche al corno) e Marcello Sebastiani, contrabbasso. Bell’interplay e vitalità, e invece maggiore pensosità (e pastosità) nei pezzi al corno. Altra (giovane) tromba, lo spezzino Andrea Paganetto è alla sua opera seconda, Liverno (Caligola), in quartetto e quintetti diversi (ritorna Marangolo): più leggibile del precedente, che ci aveva veramente stupiti (ne avevamo riferito su queste colonne). Attendiamo il capitolo 3.

Altri due trombettisti illuminano album altrui. Il primo è l’americano Taylor Ho Bynum, già prezioso sodale di Anthony Braxton, nel quintetto del violinista Emanuele Parrini (foto in basso) che ha inciso Digging (Felmay) album imperdibile, come sempre ricchissimo, mai banale, in esemplare equilibrio fra memoria e ricerca. L’altro è Giacomo Uncini in seno al sestetto del chitarrista Stefano Savini in Aliquid Novi (Dodicilune), lavoro molto onesto, magari non avanzatissimo ma con una sua linea estetica ben delineata e un ottimo senso della costruzione (tutti i brani di Savini).

E chiudiamo con l’annunciata eccezione: Quartettoquartetto (nusica.org), in cui il ben noto XYQuartet si unisce a un altro quartetto (da cui il titolo), l’Ensemble di Percussioni Pedrollo, confezionando un’opera che decolla più nel segno dell’XY ma guadagna via via aree maggiormente compenetrate, dando vita a un lavoro originale e compiuto, solido e mosso. E l’eccezione? Che qui non c’è traccia di strumenti in si bemolle: solo il sax alto di Nicola Fazzini, che però, com’è noto, è in mi bemolle…

Foto di Alberto Bazzurro

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