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L’unione fa la forza

Lo strapotere dei fiati, chitarre, voci e marimbe come spezie intermittenti, e poi il distendersi delle trame compositive: senatori (D’Andrea, Tommaso) e più o meno giovani virgulti, quando possono, si “allargano”. Fra vecchi e nuovi idiomi.

 

Benché dal vivo l’attuale congiuntura economica renda assai più percorribile la via di formazioni più agili, c’è evidentemente da parte di chi, nel jazz, nutre ambizioni anche compositive una grande voglia di allargare gli organici. Con risultati spesso notevoli. Un gruppetto di recenti uscite discografiche fotografa adeguatamente il fenomeno.

Partiamo da Franco D’Andrea, vincitore dell’ultimo Top Jazz come jazzista italiano del 2013. Il pianista meranese guida attualmente due gruppi coi fiocchi, un quartetto (con Andrea Ayassot, Aldo Mella e Zeno De Rossi) e un trio (con Mauro Ottolini e Daniele D’Agaro). Bene: nel recente Monk and the Time Machine (Parco della Musica, due CD) ha visto bene di fondere le due entità in un sestetto (4+3=6, già, visto che ovviamente D’Andrea figura in entrambe) che alterna pagine di Thelonious Monk ad altre originali, di cui un paio firmate da tutti i membri del gruppo (tre fiati, piano, basso e batteria; vedi foto in alto), che vuol dire poi improvvisazioni tout court. La grandezza della musica di D’Andrea, che da qualche anno sta attraversando una nuova, fecondissima primavera, è sempre quella: piedi ben saldi nella tradizione (anche pre-bop, come del resto la stessa musica di Monk), eppure un’impressione di nuovo, di fresco, pur senza abbracciare pratiche troppo spericolate (se non en passant). La quadratura del cerchio sta in un senso di autenticità, di non ovvietà, di non adesione a stilemi triti e ritriti, che la sua musica possiede in abbondanza. Un’anima, potremmo dire, che la fa apparire anni luce più avanti di quella di tanti trenta/quarantenni che pensano che il jazz sia repertorio (altrui, o ivi ricalcato), patterns e atletismo strumentale.

Non rientra certo in tale conventicola Biagio Coppa, che alla testa della Flight Band (una big band a tutti gli effetti) firma S-Compagine Musicale (No Flight), in cui, un po’ come D’Andrea, rilegge pagine storiche (ancora Monk, e poi Ellington, Mingus, Shorter, Zawinul) incorniciandole in due composizioni proprie, e dando comunque al tutto un’unitarietà assoluta, che è figlia di un occhio netto, riconoscibile, originale, a cui del resto Coppa ci ha abituati a contatto col materiale più disparato. Il linguaggio non è solo quello del jazz, ma anche, copiosamente, del rock (la chitarra, anche roboante, di Stefano Mansueto, ne è, con la fisarmonica di Mario Toscano, la voce più felicemente fuori copione), la massa orchestrale notevole, gli assoli sempre centrati.

Sassofonista come Coppa (che però nella Flight Band si limita a dirigere) è il torinese Marco Tardito, che in Eleven – Undici solfeggi futuristi (CMC) s’ispira a Balilla Pratella per comporre un mosaico musicale che all’estetica futurista si rifà con arguzia e inventiva (perfettamente in linea, in tal senso, la bellissima copertina di Ugo Nespolo), per esempio cavando dal cilindro suoni schiettamente futuristi (clacson, grattugia, macchina da scrivere…), inserendo testi di analoga provenienza (detti da Elena Canone e Paola Roman), o ancora nella scelta dei titoli (Ululatori, Aeropittura, Gorgogliatori, Crepitatori…). Agli ordini (si fa per dire…) di Tardito opera un settetto (lui compreso, su clarinetti e sax alto), anche qui con una vitale chitarra elettrica sugli scudi (Ivano Gruarin), benché forse la voce più incidente sul tessuto timbrico globale sia la marimba di Alberto Occhiena. Si respira qua e là un’aria vagamente zappiana, il che va letto come un complimento, anche proprio in quanto a poetica (tra Futurismo e Dada, il grande Frank ci sguazzava).

Chiudendo con due lavori più legati all’aspetto strettamente compositivo, diciamo anzitutto del nuovo album (dopo diversi anni di silenzio) di Bruno Tommaso (foto qui sopra), Le oche di Lorenz (Rudi Records), realizzato da un ottetto, con quattro clarinetti (e che clarinetti: Gori, Succi, Trovesi, Mariottini), piano, basso, batteria e voce. Apre il disco la suite in dodici (brevi) movimenti Oh, che bel mattino, che possiede la lapidaria espressività delle migliori pagine di Tommaso, raffinata e scattante, qua e là di tratto vagamente third stream/californiano, e con un uso del cantato (senza testo) quanto mai felice. Completano il CD nove brani più ampi, a loro volta raccolti a suite (Il gioco dell’oca) ma comunque più autonomi, per i quali possono valere analoghi rilievi, pur entro spazi più dilatati. Ovunque pertinenti gli interventi solistici.

Chiude il lotto un ultimo CD, live, in verità uscito già da qualche mese, Teatro Arrigoni (Artesuono) della Concert Jazz Band diretta dal flautista Massimo De Mattia e dal pianista Bruno Cesselli, entrambi friulani, autori di tutto il materiale tematico. È all’opera un nonetto di cui proprio De Mattia è solista principe, però con vibrafono e marimba (Luigi Vitale) anche qui piuttosto incidenti sul tessuto complessivo, che tende a imporsi proprio come tale (cioè coralmente), con trame fitte e dinamiche piuttosto mosse. L’impianto è se vogliamo più tradizionale rispetto a molto di ciò a cui De Mattia, frequentatore piuttosto assiduo di questa rubrica, ci ha abituati nella sua produzione per organici più ridotti, ma proprio l’atipicità dell’ensemble, unita a tanti momenti ottimamente risolti, rappresenta un sicuro motivo d’interesse del lavoro.

 

Foto di Alessandra Freguja (D’Andrea 6tet) ed Enrico Stefanelli (Tommaso)


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