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Piano piano (per non dimenticare)

Partendo dal ricordo di Gianni Lenoci, compiamo la nostra solita carrellata, stavolta fra ance, chitarre e pianoforti, musica nuova e rivisitazioni varie

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Capita che musicisti che in vita non hanno magari riscosso i consensi meritati, quanto meno di notorietà spicciola, dopo la morte mostrino quale “graffio” profondo hanno lasciato nel loro ambiente. E’ quanto sta accadendo col pianista pugliese Gianni Lenoci (foto sopra), che a meno di due anni dalla sua scomparsa sale di frequente agli onori della cronaca per incisioni che lo riguardano. La più indicativa di quanto appena detto è con ogni probabilità A Secret Garden (Nel Gioco del Jazz), in cui un quintetto di suoi conterranei capitanato dal sopranista Roberto Ottaviano e con in bella evidenza la voce di Gianna Montecalvo rilegge dieci sue pagine, in una dimensione molto diretta, colloquiale, discorsiva, che ce le fa apprezzare in tutta la loro chiarezza e bellezza.

Risulta essere invece l’ultima solo live performance dello stesso Lenoci (a Ruvo di Puglia il 4 settembre 2019) quella documentata dall’imperdibile A Few Steps Beyond (Amirani), in cui curiosamente il Nostro non si misura con pezzi suoi, passando invece da Ornette Coleman a Paul e Carla Bley, a songwriters d’antan quali Jerome Kern e Gordon Jenkins. Ciò che più conta nel jazz – si sa – è del resto l’improvvisazione, la vena del momento, e Lenoci ce ne regala a profusione, di ispirazione (e grande rigore formale, ciò che non lo abbandonava mai), così come in un altro reperto, questo veramente d’epoca, trattandosi di un duo, sempre live (data esatta e luogo ignoti), di un quarto di secolo fa con Eugenio Colombo, sax alto, soprano e flauto, in Colombo Lenoci 1996, sei brani (solo in digitale) equamente divisi (cioè firmati tre a testa) più un settimo non dichiarato. Dialogo mai banale, fitto, vitale e come si diceva ispirato.

Un reperto assolutamente prezioso, quindi, che dobbiamo al polistrumentista romano (come Colombo) Marco Colonna, di cui ci stiamo occupando spesso, di recente, perché in effetti artefice di un proprio autentico rinascimento espressivo, come conferma il bellissimo Offering (Nianfunken/Setola di Maiale), album solitario, anch’esso dl vivo, dedicato alla musica di John Coltrane, che trova nella rilettura di Colonna, diviso fra clarinetto basso e sax sopranino, nuovo smalto, fuori da ogni ovvietà o ripresa di mera circostanza (anche perché di anniversari in giro non ce ne sono). Uno dei dischi più belli, avvincenti e scintillanti, ascoltati da un bel po’ di tempo in qua.

Soli, duetti e piccoli organici in genere trovano come ben sapete ottima accoglienza in questa rubrica, per cui non intendiamo certo smentirci oggi, partendo da un altro sax-clarinettista (nonché flautista), il norvegese Tor Yttredal, che in Some Red Some Yellow (Parma Frontiere) duetta col nostro amico contrabbassista Roberto Bonati nel segno del rigore e del chiaroscuro, di un’introspezione ora più assorta ora più espansiva, il che accade anche in From Here From There (We Insist!) fra il clarinetto di Giancarlo Nino Locatelli e il piano di Alberto Braida, in possesso in particolare di un grande aplomb, con un humus che può rimandare al Jimmy Giuffre più algido e controllato.

Stesso strumentario, ma con l’aggiunta di una fisarmonica, in Dialogues (Enja) del trio formato da Luciano Biondini, Mirco Mariottini (anche al clarone) e Stefano Maurizi, piano. Disco notevole, per il lirismo, la cantabilità (e anche una certa energia) che sa aggiungere alle prelibatezze dei due album precedenti, così come accade in due cd con al centro un altro gande clarinettista, il perugino Gabriele Mirabassi (foto sotto), nostrano principe dello strumento, che nel cd Il gatto e la volpe (Egea) dialoga con un altro fisarmonicista di vaglia, Simone Zanchini, e invece in  Tabacco e caffè (Dodicilune) con due strumenti a corde, la chitarra classica di Nando Di Modugno e quella bassa di Pierluigi Balducci. Dischi entrambi notevoli, con quella danzabilità intestina, fra l’olimpico e – qua e là – il quasi dionisiaco (ma sempre sorvegliato), che attraversa la musica di Mirabassi. Condotto per lo più lungo temi originali il duo con Zanchini, con dentro parecchio Brasile (Horta, Gismonti, Lobo, Guinga, Chico Buarque), amatissimo da Mirabassi, il trio. Sia come sia, ottima accoppiata di cd, gradevoli quanto sapienti.

 

Chitarra primattrice, passando oltre, nella terna di album che incontriamo di seguito, il primo, Passi (Caligola), viaggia ancora nel segno del duo, fra il chitarrista Loris Deval e il trombettista Bruno Martinetti, aprendosi fino al quartetto nei brani con un’altra chitarra (Maurizio Brunod) e/o la voce di Sabrina Oggero Viale. Musica in punta di penna ma non esangue, gradevole ma non banale, laddove certo più irruenta si rivela quella offerta da In Front Of (Tuk) del trio MAT, ovvero Marcello Allulli, sax tenore, Francesco Diodati, chitarra elettrica ed effetti, ed Ermanno Baron, batteria. Una musica vivida, robusta, timbricamente e nelle dinamiche, coerente da cima a fondo. A un’autentica icona della chitarra contemporanea, Bill Frisell, è dedicato infine Unscientific Italians Play the Music of B.F. – Vol. 1 (Hora, neonata), opera di un largo ensemble zeppo di fiati ma senz’ombra di chitarra. Disco singolare, quindi, molto curato, bellissimo, ciò che del resto il parterre lasciava ampiamente presagire. Vi figurano infatti alcuni dei più bei nomi del nuovo jazz italiano, da Flavio Sigurtà a Filippo Vignato, Cristiano Arcelli, Piero Bittolo Bon, Francesco Bigoni, Antonio Santimone (regista dell’operazione), Danilo Gallo, Zeno De Rossi, ecc. Gran disco, come si diceva.

Uscendo appena dal seminato, eccoci al quintetto denominato Arcote Project del trombettista torinese Johnny Lapio che firma Antroposophie (DDE, solo in digitale), suite in sei parti solida e ben costruita, a tratti di umore che definiremmo mingusiano, laddove una nostra vecchia conoscenza, il pianista bergamasco Claudio Angeleri firma per parte sua un cd ambizioso come Music from the Castle of Crossed Destinies (Dodicilune), a sua volta tutto di composizioni originali (più una di Monk), pieno, ricco, vitale, opera di un settetto nella cui essenza timbrica incidono molto due signore, Paola Milzani alla voce e Virginia Sutera al violino.

E chiudiamo tornando al trio, anche qui facente leva su brani tutti originali, qui però frutto di composizione istantanea, alias improvvisazione collettiva. Trattasi del trio Korr (il francese Michel Doneda, sax soprano e sopranino, e i nostri Andrea Grossi e Filippo Monico, contrabbasso e percussioni) in Tombé de la voûte (We Insist!), disco non di rado spigoloso quanto coerente, rigoroso, condotto con una logica intestina piuttosto stringente. Per palati avvezzi alla libertà e alla temerarietà in musica.

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