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Canzoni&Parole - Festival di musica italiana ...

  di Annalisa Belluco  ‘Canzoni & Parole’ il festival della canzone d’autore italiana organizzato dall’Associazione Musica Italiana Paris che ha esordito nel 2022 è pronto a riaccendere le luci della terza ...

Tu vuo’ fa’ l’americano?

Chi in America ci va e chi ne fa ritorno, chi si accontenta dell’Inghilterra, o magari di omaggiare Mingus e Leonard Cohen. Come formazione prediligono il quintetto. Meglio ancora se con un sax tenore a definirne il carattere.

Non è più una novità che giovani virgulti del jazz italiano (e non) vadano a risciacquare i panni negli States, fermandosi per periodi più o meno lunghi, a volte definitivamente. Partiamo di qui per questa nostra puntata che avrà al centro, appunto, il rapporto fra jazz americanocentrico e non, nelle più varie accezioni. E partiamo dall’altosassofonista Matteo Sabattini, che ha fatto precedere il suo rientro (dopo diversi anni) da New York, previsto per luglio, da un album, Dawning (Fresh Sound), inciso alla testa di un quintetto (con tre statunitensi e un australiano) a doppio strumento armonico, piano e chitarra, usata peraltro in veste prettamente solistica, e semmai coloristica. La musica è vitale, robusta e sufficientemente articolata. Se Sabattini saprà personalizzare maggiormente il proprio suono, potrà fare un ulteriore bel passo in avanti.

Chi, a dispetto dell’età, una sua cifra stilistica la possiede da tempo è il pianista Giovanni Guidi (foto in alto), che a New York ha trascorso un mese per incidervi (maggio 2010) We Don’t Live Here Anymore (CAM), album a sua volta in quintetto, con Gianluca Petrella al trombone e gli americani Michael Blake, Thomas Morgan e Gerald Cleaver rispettivamente a sax tenore, contrabbasso e batteria. Vi aleggiano quelle sonorità scure e concentrate, a tratti quasi disadorne (e qui con episodici rimandi colemaniani), che contraddistinguono l’universo di Guidi. Nodale, in tal senso, il tenore di Blake, che ha curiosamente una sorta di frère d’élection nel collega James Allsopp, il quale, dividendosi fra tenore (appunto) e clarone, contribuisce massicciamente al clima di un altro bell’album CAM, House of Cards, di umore per certi versi analogo, ma di tono più apollineo e rilassato. Vi opera ancora un quintetto, però con tromba e chitarra al posto di trombone e piano. La tromba è quella del leader, il bresciano Fulvio Sigurtà, che vive a Londra (dove il disco è stato inciso nel settembre scorso, e inglesi sono tre dei quattro partner di Sigurtà), ma in Italia viene sempre più spesso, convocato da questo o quel collega (Guidi compreso).

Col violoncello del francese Vincent Courtois in luogo della tromba, un altro quintetto quanto mai cosmopolita sta al centro del notevole Paroxysmal Pastural Vertigo (Auand), a firma del chitarrista Walter Beltrami (anche lui bresciano), con Francesco Bearzatti al sax tenore e al clarinetto, il giapponese Stomu Takeishi al basso elettrico e l’americano Jim Black, ben noto, alla batteria. Beltrami, che ha studiato  in America e in Svizzera, ha doti da vendere: sa come organizzare la propria musica, partendo essenzialmente da cellule ritmiche molto marcate, con una tensione palpabile che non nasconde evidenti inflessioni rockeggianti. Un gran bel disco, energetico e al tempo stesso calibratissimo.

Altri due album editi da Auand meritano grande attenzione. Il primo, News Reel, manco a dirlo vede all’opera l’ennesimo quintetto (nello specifico tutto straniero) guidato dal tenorsassofonista (e ridagli!) israeliano Ohad Talmor, cresciuto in Svizzera e americano d’adozione, col ritorno della tromba, e poi piano, basso e batteria (tutti newyorchesi, autentici o acquisiti). Fra temi di Konitz, Ornette, Warne Marsh e originali, il meglio arriva allorché più ci si stacca da stilemi jazzistici fin troppo battuti, sempre entro strutture solide e curate. L’originalità non fa certo difetto (a partire dalla copertina) al terzo cd Auand, Intollerant, in cui il trio Mr. Rencore (Beppe Scardino, ance, Gabrio Baldacci, chitarra, effetti vari e soprattutto composizione, e Daniele Paoletti, batteria) ospita il grande altoista americano Tim Berne (foto sopra), la cui sola presenza dota la musica (già di per sé ammirevole) di quel tono acre, petroso, spesso quasi arrembante, che garantisce una tensione costante e feconda. Veramente un gran disco.

Grumosità, corporeità e alto tasso emozionale si respirano anche nel primo dei due cd che omaggiano entrambi (ma con quali differenze!) l’indimenticato Charlie Mingus (se ne contano parecchi, ultimamente, di tributi al grande bassista), Mingus Reform School (No Flight) del C.O.D. Trio (Biagio Coppa, sax tenore e soprano, Gabriele Orsi, chitarra, Francesco Di Legne, batteria: di fatto lo stesso organico di Mr. Rencore senza Berne). L’altro lavoro è invece opera – come ci dice già il titolo: Mingus in Strings Vol. 1 (Radio SNJ) – di un quintetto d’archi (con fra gli altri Emanuele Parrini e Paolo Botti, più ospiti, fra cui Tiziana Ghiglioni), vale a dire Musikorchestra del bassista piacentino Luca Garlaschelli (foto sotto), ovviamente privilegiando temperature più liquide, quiete, fisiologicamente cameristiche (ma non per questo estenuate). Può essere utile, al proposito, confrontare il trattamento riservato ai brani comuni fra i due cd. Che sono tre, fra i più noti: Fables of Faubus, Self Portrait in Three Colors e Boogie Stomp Shuffle. Non avendo lo spazio per farlo nel dettaglio, diciamo solo che C.O.D. si immerge spesso in turgori da downtown urbano, denso, frammentato e nervoso, laddove Garlaschelli e soci salvaguardano di più la forma in sé (anche sul piano squisitamente tematico), illuminandola di bagliori inusuali e preziosi. Alla spicciolata, altri temi fra i più alti di Mingus che compaiono (una sola volta) nel duplice omaggio sono Nostalgia in Times Square, Goodbye Pork Pie Hat, Haitina Flight Song, Jump Monk, Jelly Roll. Non c’è decisamente di che lamentarsi, quindi. Anche per gli esiti, ovunque maiuscoli.

Molto noti sono pure diversi dei brani che Eugenio Colombo, sassofoni e flauto, e Raffaella Misiti, voce, hanno scelto per il loro October Songs (Rudi), omaggio a quel Leonard Cohen che all’America appartiene nel suo lembo settentrionale (il Canada, com’è noto) e la cui marginalità deriva semmai – rispetto al nero, anzi meticcio, Mingus – dalle radici ebraiche (segnaliamo al proposito il recente volume di Salvarani e Semellini Il Vangelo secondo Leonard Cohen, edito da Claudiana). Ci sono così Suzanne e So Long Marianne, Hallelujah e Teachers (tutto proviene da tre soli album, i primi due, del ’67 e ’69, e Various Positions, dell’84), in un interscambio che sfocia talora nello straniamento (reciproco), con effetti insoliti e stimolanti, tra una voce che non disdegna il recitativo e un sax (il flauto compare solo nel conclusivo, ottimo If It Be Your Will) che lambisce l’antigrazioso. Da ascoltare con attenzione.         

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