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Canzoni&Parole - Festival di musica italiana ...

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Un due tre quattro

Piccoli organici, più o meno canonici nella conformazione, con una larga presenza, ancora una volta, di musicisti friulani.

 

Potremmo definire il Friuli una terra d’elezione per questa rubrica: di lì siamo partiti, sette anni fa, e periodicamente ci torniamo. La realtà jazzistica di quell’area di confine continua del resto a prestarsi per le nostre scorribande, e quindi oggi torniamo alla carica. Almeno per tutta la prima parte di questa puntata (sovraffollata, lo diciamo subito, per cui dovremo stringerci non poco, e con noi i musicisti che come sempre leggeranno queste righe).

Partiamo da uno dei nomi di punta del furlàn jazz, Massimo De Mattia (foto sopra), del resto frequentatore assiduo di questo nostro spazio. Lo ritroviamo oggi al centro di due album, usciti quasi insieme. Tre, in realtà, visto che Skin (Caligola) è doppio, una sorta di summa dell’arte del flautista di Pordenone, che vi raccoglie oltre due ore di musica incisa nel primo semestre 2014, quarantadue pezzi divisi in otto sezioni, tante quante gli organici presenti (tredici i musicisti coinvolti): un solo (De Mattia, ovviamente), tre duetti, tre trii e un quartetto. Tanto per anticipare, anche, che tutto il materiale che passeremo in rassegna oggi si muove lungo queste coordinate. Restando a “Skin”, c’è da leccarsi le dita. In ordine di apparizione – in quel clima asciutto, a volte puntuto, altrove più quieto, pensoso, sempre lontano dall’ovvio, tipico di De Mattia – si distinguono il quartetto con Cesselli, Maier e Kaucic, i cinque soliloqui, i tre duetti con i clarinetti di Daniele D’Agaro, il trio con Caruso e Vitale. Una vera manna dal cielo.

Giovanni Maier torna al violoncello (riponendo il contrabbasso) in Double Layer (Palomar), magistrale duo in cui De Mattia si dedica al solo flauto basso. Cameristico e assorto, attorcigliato con estremo garbo ed eleganza attorno alle sonorità gravi dei due strumenti, l’album è l’ennesima conferma del valore dei due musicisti, così come del tutto convincente, ma più in prospettiva (se non altro per ragioni anagrafiche), è Stilelibero (nusica.org) di un altro duo, forte del vibrafonista Luigi Vitale (salernitano trapiantato, lui), come abbiamo visto già presente in “Skin”, e del percussionista Luca Colussi. Lo attraversano atmosfere e temperature felicemente in bilico fra il liquido e il tribale, rigorose, del tutto conseguenti fra brano e brano.

Colussi torna nel nuovo quartetto di Lanfranco Malaguti, dove proprio i flauti di De Mattia lasciano il posto alla fisarmonica di Romano Tedesco, con Nicola Fazzini sempre a sax alto e soprano. Ce lo dice il recentissimo Oltre il confine (Splasch), disco intricato (specie ritmicamente), pieno, vociferante (la sola chitarra di Malaguti ha cinque diverse “pelli”, e le sovraincisioni fioccano), di incedere spesso contrappuntistico e di una coerenza intestina ferrea, quasi crudele.

Molto coeso, venendo a un paio di friulani giramondo, anche Live in Europe 2009 (JMood), dove il pianista triestino Roberto Magris celebra il grande Herb Geller (scomparso a fine 2013), all’epoca di queste incisioni serbo-austriache (con Nikola Matosic al basso ed Enzo Carpentieri alla batteria) già ultraottantenne ma capace di far saltare ancora il banco (in un brano, The Peacocks, anche in solitudine). L’altro giramondo è Francesco Bearzatti, sax tenore e clarinetto di Pordenone che nel marzo 2014 ha preso parte al nuovo album del quartetto di Roberto Gatto, con Avishai Cohen alla tromba e Doug Weiss al basso. Il disco, Sixth Sense (Parco della Musica), è il migliore del batterista romano da tempo immemorabile. Lo segna un clima che non può non richiamare il pianoless quartet di Ornette Coleman, anche se qui i “postumi” bop sono ben più forti. Variegato il parco tematico: Brubeck, Ed Blackwell (batterista di Ornette, lo ricordiamo), Ellington, Waldron, Mingus, Silver, e naturalmente Gatto. 

Chiudiamo il filone friulano con un’ultima presenza, ancora di Giovanni Maier nel doppio CD dedicato da Roberto Ottaviano (foto qui sopra) al grande, indimenticato Steve Lacy, vale a dire Forgotten Matches (Dodicilune), per metà in quartetto (Maier, Glenn Ferris al trombone e Cristiano Calcagnile alla batteria) e per metà in duo col pianista Alexander Hawkins. Il maggior godimento sta nel ritrovare temi e climi così felicemente familiari riproposti con tanta efficacia e, insieme, aderenza filologica, anche quando (nei duetti accade spesso) la firma non è quella di Lacy. Imperdibile.

Sempre in tema di duetti, da rimarcare che quello formato da Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura (foto sotto) ha appena esordito su disco con In maggiore (ECM). Temi dei due performer e diverse canzoni (con molto Sudamerica – Chico Buarque, Inti Illimani, Victor Jara, Jaime Roos – ma anche Puccini e Non ti scordar di me) popolano un album svolto nel segno di un’eleganza docile, sottilmente danzante, qua e là di una solennità quasi liturgica (molto organistico l’uso che Di Bonaventura fa del bandoneon). Preziosissimo.

Non altrettanta misura contrassegna i CD di due artisti vulcanici come Francesco Cusa e Carlo Actis Dato, entrambi in quartetto, per il batterista siculo-bolognese con tromba, sax alto e organo Hammond, per il fiatista torinese nella classica formazione (ormai ultraventicinquennale) con seconda ancia, basso e batteria. Love (Improvvisatore Involontario) di Cusa non disdegna l’elettronica e funkeggiamenti vari, ma neppure intarsi di taglio più squisitamente contemporaneo, a tratti persino vagamente zappiano, mentre in Earth Is the Place (Leo) Acits Dato ripropone turgori e gigionerie ampiamente note. Con qualche felice variante.

Un ulteriore quartetto, di tratto decisamente più (diciamo così) euro-radicale, firma – sintetizzando un multititolo chilometrico – Glance and Many Avenues (Amirani), sette improvvisazioni senza rete condotte da Gianni Mimmo, sax soprano (a sua volta di chiara indole lacyana), Ove Volquartz, clarinetti gravi, Gianni Lenoci, piano, e il rientrante Calcagnile (già con Ottaviano), batteria. Notevole, il tutto: musica ora distillata, volatile, ora più densa, nervosa, sempre nel segno di un invidiabile senso della struttura, della forma.

Chiudiamo, magari persino eccentricamente, con due trii piano/basso/batteria. Il primo è quello di Giovanni Guidi protagonista dell’ottimo This Is the Day (ECM), clima aereo, sospeso, estatico, non senza qualche periodica impennata (per esempio in The Debate e Migration). Spicca una bellissima, vaporosa versione di Quizas. Trio Grande (Crocevia di Suoni) di Massimo Colombo (con Peter Erskine alla batteria) si pone grosso modo sulla stessa linea, elegante e di sicuro buon gusto, anche se verosimilmente con minor interiorizzazione, minore profondità di approccio. Album degnissimo, sia come sia.

 

Foto di Nada Žgank (De Mattia), Rocco Lamparelli (Ottaviano), Alberto Bazzurro (duo).

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