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Quando si dice che qualcosa nasce dal “basso”, possiamo pensare subito a due cose. La prima è che dalle quattro corde del basso, dalla ritmica, può nascere una canzone (e gli ...

Dal contrabbasso… al contrabbasso

Il principe degli archi in jazz ci fa da cicerone attraverso diciotto album
(un primato!) che toccano ovviamente anche tutto il restante strumentario
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Come dice il nostro titolo, oggi compiamo un percorso che dal principe degli strumenti gravi del jazz parte e lì ritorna, con in mezzo tutte le nostre usuali circonvoluzioni attraverso dischi fra loro anche molto diversi (oggi 18, primato assoluto). Partiamo da un contrabbasso solitario (pur se qua e là sovrainciso e/o abbinato alla voce) in Isolation (Caligola) del friulano Matteo Mosolo, nove brani tutti originali con dediche a bassisti (Mingus, Haden) e non (Ayler), per un progetto coeso, rigoroso, e sufficientemente articolato da tener desta l’attenzione di chi ascolta.

Nessun contrabbasso, e invece un vibrafono e una batteria, dialogano in Angelica (Leo) di Sergio Armaroli e dello svizzero Fritz Hauser, duo essenziale, spesso prezioso, che c’introduce eloquentemente al cd – Phylum (Aut) – che è un po’ la (prima) chiusura del cerchio, presentando un trio con vibrafono (il leader, Nazareno Caputo), basso e batteria. La partenza è molto promettente, vitale, per battere poi strade fin troppo esangui, dimesse, perdendo mordente, pur mantenendo assoluta eleganza di tratto.

Un’unità in meno ed eccoci a un altro duo, quello formato da Ciro Riccardi, tromba e flicorno, e Gianluca Rovinello all’arpa, strumento alquanto anomalo per il jazz, nel live Grass ‘n Wood (Da Vinci), per un impasto alla fine abbastanza strano, che tuttavia genera una musica di pregio, con un certo gusto per la cantabilità (ma anche energia) a far da collante. Un altro duo, stavolta fra trombone (Filippo Vignato) e pianoforte (Enzo Carniel), dà voce ad Aria (Menace), lavoro senz’altro eccellente, in cui tuttavia non accade nulla (o quasi) che non potessimo attenderci.

Trombone sugli scudi nella terna di dischi che segue, partendo da The World on a Slide (Alfa Music) del veterano (classe 1935) Marcello Rosa, attorniato per l’occasione da una selva di colleghi di strumento (diciannove, più ritmi), per un cd che del trombone è un’autentica summa. Un altro padre storico dello strumento (stavolta a pistoni), Dino Piana (1930!) firma per il Parco della Musica Al gir dal bughi (Dino – nella foto in alto – è astigiano, di Refrancore), in cui ci sono suo figlio Franco e il grande Enrico Rava ai flicorni soprani e trio ritmico di assoluta affidabilità. Non poteva che venirne fuori un gran bel disco, e così è, a conferma che quando il cosiddetto mainstream lo suonano i maestri il cerchio si chiude (quasi) sempre. Trombone made in USA, infine (Robin Eubanks), nel quartetto di Leonardo Radicchi, sax tenore e soprano, che firma Songs for People (Alfa Music), a sua volta non così avanzato ma di ottima fattura, solido, coeso, equilibrato. Otto i temi, tutti di Radicchi, senza cali di tensione.

Una tromba (Francesco Lento, nome da appuntarsi, del resto non da oggi) al posto del trombone illumina il quartetto del batterista Enrico Morello nell’ottimo Cyclic Signs (Auand), per il resto completato ancora da sax e contrabbasso. Belle geometrie, scarti brillanti, perfetti sincronismi di gruppo per un album da gustare da cima a fondo, così come, aprendo un trittico di (notevoli) album in trio senza ottoni, Distilled (Parco della Musica) del sassofonista, tenore e soprano (qui anche alla melodica), Tino Tracanna (foto sopra), che vi conferma di attraversare una stagione particolarmente felice della sua ormai lunga carriera, solida e ispirata nel contempo.

Identico strumentario (ma senza melodica) per il ritorno del sassofonista brianzolo Biagio Coppa, il cui recente Slam Dunk (No Flight) ci riconsegna un musicista di rara integrità e coerenza estetico-espressiva, come questi otto brani non fanno che confermare, allo stesso modo degli undici, sempre tutti originali, presenti in All the Difference (Clear Now) del veneto Alberto Pinton, ormai da decenni svedese d’adozione. Qui il massiccio polistrumentismo (sax baritono, clarinetti, flauto) sposta gli orizzonti verso climi più squisitamente europei (senza scordare gente come Dolphy o Giuffre), rinsaldando in pieno il valore di un musicista che meriterebbe ben altra considerazione in patria.

Sax baritono e clarinetti sono due degli elementi del sestetto privo di ritmi riunito da Francesco Chiapperini nell’ottimo On the Bare Rocks and Glaciers (Caligola), dedicato ai canti di montagna, intervallati da materiale per così dire estraneo, peraltro all’interno di un progetto di esemplare coesione e cifra stilistica riconoscibilissima, che è poi quella del clarinettista barese-lombardo (al baritono c’è Andrea Ferrari e gli altri sono violino, tromba, cornetta e fagotto), fra gli uomini più creativi del jazz italiano odierno. Tanta scrittura, di umore cameristico e non, e assoli mirati.

A sua volta molto (ben) costruito è Il labirinto dei topi (Emme Record), opera di un altro sestetto, Archipelagos, della venticinquenne drummer orobica Francesca Remigi (foto sotto), con voce, tromba, clarinetti (Federico Calcagno), piano e contrabbasso. Un disco composito, dove il jazz si sposa felicemente con altri idiomi, creando un tutto che non rischia certo di annoiare, ciò che a tratti accade invece – proprio per il motivo opposto: la carenza di strutture – nel pur apprezzabile Loveland (Slam), inciso nel 2010 in quel di Praga (ma solo oggi portato alla luce) da un quintetto internazionale in cui l’unico italiano è il violinista genovese Stefano Pastor, mentre il nome più noto è quello dell’inglese George Haslam, sax baritono (e ridagli!) e tarogato. Il meglio arriva quando sono appunto Haslam e Pastor, sempre con quel suo suono acidulo, personalissimo, a condurre le danze. Altrove, come detto, qualche calo di tensione si avverte.

Il gusto per un suono non poco elettrificato accomuna “Loveland” a Magister Puck (Caligola) del trombettista-filosofo veneziano Massimo Donà, per il resto diversissimo, come sempre molto davisiano, otto brani con otto organici diversi (dal quintetto in su, e c’è pure David Riondino voce recitante). Molta organizzazione e qualche ripetizione di troppo per una musica derivativa quanto di bell’ascolto.

Altrettanto affollati gli ultimi due cd in scaletta. Il primo è Irene of Boston (Eflat), opera per quintetto jazz e orchestra (la London Symphony) ispirata a Corto Maltese composta ed eseguita (come solista di sax alto) da Francesco Cafiso, con momenti più sinfonico-contemporanei (forse i migliori) e una compenetrazione fra i due universi, invece, non sempre impeccabile (ci sono riusciti in pochi, del resto). Il secondo, con cui chiudiamo come promesso sulle corde di un contrabbasso, è – appunto – Rapsodia per contrabbasso e coro di clarinetti (dodici) del bassista piacentino Luca Garlaschelli, lavoro spigliato e ottimamente confezionato, in cui il rendez-vous, al netto di una punta di maniera, appare felicemente raggiunto.

Foto di Alberto Bazzurro (Piana, Tracanna)

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