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Amadeus ex machina, col Fiorello all'occhiello

Sanremo 2020: la musica è finita?

Dal 4 all'8 febbraio 2020

Nonostante un vergognoso spoiler arrivato in anticipo, Diodato sbaraglia la concorrenza fatta di scollature petalose, pinguini, ex scimmie e regine vere e posticce, arrivando sul podio e facendo banco in questo Sanremo targato 2020. Primo posto, premio della critica Mia Martini e premio Sala stampa.

Zitto, composto, a modo, senza clamori, senza perle, ma con classe, un inciso volante come unico slancio nel vuoto, al di là delle scale dell'Ariston. Diodato, al contrario di quello che cantava, non ha fatto rumore per nulla. E questo dà fastidio a chi si sbraccia con bacchette da presunto maestro d'orchestra, a chi indossa personaggi e non toni, semitoni, minime e semiminime. Hanno vinto la compostezza e la bravura, che in questo mondo nuovo di offese, polemiche, strali telematici e parole a caso, creano una frattura e generano reazioni opposte e contrarie. Ha vinto il garbo all’interno di un Festival tanto chiacchierato da subito quanto poi andato liscio come l'olio, come tutti. Come sempre. Il premio Mia Martini doveva essere di Tosca, senza dubbio alcuno. Lei, dea tra le comparse in un carrozzone in molti casi volgare e non certo per la scelta di donne bellissime, che a Sanremo ci son sempre state, più o meno svestite, ma per una serie di cliché che ormai da tempo sono il canovaccio base di questa manifestazione.

Può cambiare il capo banda, ma quel che resta è un fenomenale pastiche in cui la canzone è relegata ai margini e fa da contorno a monologhi, predicozzi, promozioni di film, esibizioni improbabili, siparietti, retorica, tanta, troppa. In cui anche la follia trasgressiva e glamour di Achille Lauro entra dalla porta principale come un atto di fede a cui votarsi e guai a non considerarla momento altissimo d’arte, perché si rischia accusa di blasfemia, o di banalità. Bisogna solo capire cosa si cerca, come in ogni cosa della vita, senza deragliare, ma tenendo fermo un centro. Se si cerca la canzone o lo stupore. Avere entrambi sarebbe l’optimum, magari con un po’ di intonazione in più, nei messaggi cifrati nascosti tra il trucco e il parrucco. Quello farebbe gridare meno al genio, forse, ma tant’è. Molte le parentesi tristissime: giù dalla torre Morgan che sbrocca e cambia il testo del pezzo, anatema lanciato vs Bugo che va via dal palco; per loro, più che mai, la festa è appena cominciata e già finita. Poco comprensibili le divise, i carabinieri, la fanfara, l'inno di Mameli, i 'me ne frego' provocatori e non, le parti insopportabili sul femminicidio, l'infinito polpettone di Benigni che preferiamo ricordare in calzamaglia, con Troisi, a scrivere a Savonarola; Elettra Lamborghini, presa da chissà quale mondo e catapultata mezza nuda e priva di ogni perché su un palco che con lei ha a che fare come il suo pezzo, in cui scompare tutto, soprattutto la musica; i nonni, gli zii, le mamme e i cugini citati nei brani; gli schizzi emotivi della valletta bionda albanese e di Tiziano Ferro; Urso in quanto tale, starato rispetto ai tempi, alla discografia attuale, ai gusti del pubblico e soprattutto alla sua giovanissima età. Sogniamo di vederlo in gara il prossimo anno su quel palco a rapparci E lucean le stelle.

Salviamo invece
Amadeus così massacrato per quell’inizio maldestro, una ingenuità di fondo, amplificata come al solito dal grande altoparlante dei social, da cui ha fatto un passo indietro, conducendo in maniera onesta. Tanto onesta da invitare il suo amico di sempre per tenerlo accanto, che dal un lato è garanzia di successo, vero, ma dall’altra è anche rischio di un oscuramento totale, visto l’istrionico ciclone che è. Fiorello è sempre a suo agio, è sul palco del Festival come se fosse nel salotto di amici e terrebbe in piedi qualunque situazione. Così è stato, soprattutto nella coda finale dell’ultima serata quando i tempi dilatati estenuanti avevano bisogno di essere riempiti. È bastato un autotune e poco altro. Salviamo i vestiti a petalo, l'Orchestra pagata 50 euro al giorno, i Ricchi e Poveri riuniti e Bobby Solo povero, relegato alla 1.54 (qui nella foto con Alketa Vejsiu, conduttrice albabese e scelta da Amadeus per diventare una delle dieci 'vallette" di questa edizione), le canzoni, non tutte, ma alcune, la voce sempiterna di Fausto Leali, i duetti, alcuni, e Al Bano e Romina, tornati trionfanti, insieme e sempre sullo stesso pezzo, che va, come un pensiero che sa di felicità. Salviamo due grandi escluse ingiustamente, Gabriella Martinelli e Lula, buttate giù dalla torre troppo presto, a crudo, ma guarda caso, ripescate dall’altro Festival e lanciate nella mischia (forse perché bravissime?). Salviamo Sabrina Salerno, più bella delle belle, Piero Pelù, tra i pochi a mantenere in piedi la canzone e il rock (ancora, sì) e Tosca, Tosca, sempre e molto Tosca. Che ha insegnato a tutti, indistintamente, concorrenti, spettatori, addetti ai lavori, e non, come si canta e si interpreta. Salviamo infine la bellissima mostra che era a Santa Tecla, sulla storia del Festival, che ha permesso a molti di trovarsi di fronte a feticci imprescindibili, come gli abiti di Mimì (qui una foto del vestito indossato nell'edizione 1989, l'anno di Almeno tu nell'universo), Loretta Goggi, Gigliola Cinquetti, foto inedite e persino un pezzo della scrivania sfondato da un cazzotto di Claudio Villa. Salviamo il grande popolo dei social, fagocitato magneticamente dalla “kermesse”, come direbbe il Pippo nazionale, a commentare fino a notte fonda. Questo è quello che resta, questo è quello che ogni anno come un grande rito collettivo aggrega e divide. In mezzo, la canzone, grande assente. Aspettiamo tempi migliori, accettando miracoli. Senza troppo rumore.


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