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Bonaveri: nuovo disco, rabbia antica

L'8 Marzo esce La staffetta, il nuovo e atteso album di Germano Bonaveri.

In anteprima per i lettori dell'Isola le tematiche del nuovo disco

A oltre tre anni dal precedente “L’ora dell’ombra rossa” (autunno 2011), tutto giocato sull’allegoria dei tarocchi, l’8 marzo esce finalmente La staffetta, il nuovo, atteso album di Germano Bonaveri, che abbiamo ascoltato in anteprima per i lettori dell’Isola, approfittandone poi per scambiare qualche battuta (qualche impressione, più che altro) con l’autore. Partendo per esempio dal significato più intimo del disco, come e più del solito segnato da una pregnanza testuale che trasuda da tutti i pori. “Si tratta di un concept – premette Bonaveri – che prosegue il corso dei lavori precedenti. Volevo raccontare la sconfitta, il Calvino delle Città invisibili: trovare chi e cosa non è inferno, e farlo durare, perpetuarlo, dargli spazio.

Alle Città invisibili ti eri già riferito nell’omonimo album del 2010: come si evolve quel discorso in questo nuovo lavoro, in cui, anziché una sedimentazione (auspicabile o meno che sia), traspare un’ulteriore recrudescenza di date tematiche, un dato tono bagarreur che ti è assolutamente proprio? Sembra per più versi di tornare a Magnifico, l’album che ti ha rivelato, nel 2007, per quanto la tua vis caustica non ti abbia mai abbandonato, nel frattempo.
Quando scrissi Magnifico volevo denunciare le contraddizioni e le mostruosità di un sistema basato sul profitto, che richiede come unico requisito l’idoneità alle procedure alienanti del sistema stesso, pena l’esclusione dalla società. Città invisibili, per parte sua, è la narrazione – appunto – dell’invisibilità, il racconto degli emarginati, dal vecchio abbandonato a se stesso al clandestino senza diritto di cittadinanza alla vita. Dal racconto alla proposta di un percorso: questo stimolo ha determinato la genesi dell’Ora dell’ombra rossa, che è appunto un percorso iniziatico e metaforico di rinascita/resurrezione, di quella rivolta – se vuoi – che giungendo al successo muta in rivoluzione. A presa di coscienza avvenuta, occorre una re-azione, che deve partire dalla presa d’atto del nostro stato di sconfitti permanenti. Tali sono stati per esempio i miei nonni partigiani, che hanno lottato per dotarci anche di una costituzione poi fatta a brandelli. Guccini dice in Nostra Signora dell’Ipocrisia: "Soltanto i pochi che si incazzarono dissero che era l'usato passo / fatto dai soliti che ci marciavano per poi rimetterlo sempre là in basso”.  La presa di coscienza della sconfitta sociale è la vera inversione di tendenza che auspico, unita alla consapevolezza di dover trovare un modo per reagire, partendo però dalla succitata condizione di sconfitti, di chi non ha davvero più nulla da perdere. La staffetta è il racconto di quella sconfitta, il cumulo di macerie su cui fondare la ricostruzione di un mondo possibile, un progetto utopistico in un mondo distopico che dev’essere portato avanti da chi non è rimasto stordito dalle tossine del sistema. E’ il racconto degli sconfitti di ieri proiettato nella contemporaneità.

Concetto interessante: approfondiamolo.
In un mondo senza prospettive, cosa viene proposto oggi a un giovane come modello unico? La mediocrità. Prendi i talent show, che servono a dare un orizzonte, un senso e una speranza attraverso il messaggio “potresti esserci tu”. Lo stesso accade per ogni ruolo sociale: mediocri sono i fantocci della politica, mediocri i grandi dirigenti di sistema, dove la mediocrità è anche strumento di ricatto e controllo, perché ogni mediocre, in cuor suo, sa di poter essere sostituibile. Oggi un De André non verrebbe mai proposto dal mainstream. Non a caso si celebrano i defunti. Il prossimo capitolo sarà una proposta di metodo per contrastare questo sfacelo a partire dai rapporti sociali, dalla visione del prossimo, inteso nell’accezione di prossimità. Detto ciò, devo confessarti che, in realtà, questo disco non avrei voluto inciderlo, ma poi, dietro le insistenze di chi mi circondava, produttori e musicisti, mi sono imbarcato ancora una volta in una nuova produzione.

Sarà il caso che spieghi perché non volevi incidere il disco.
Perché voglio molto bene alle mie piccole creazioni, e di conseguenza, dopo aver cercato per anni un diritto di cittadinanza nel mondo della musica d’autore lavorando duro e facendo sacrifici, mi sono scoperto nauseato dal fatto che oggi le relazioni contano più del prodotto. Essere “amico di” offre più chance di un progetto di qualità. E’ un approccio che mi affatica e che non pratico. Da sempre penso che chiunque riesca a resistere più di cinque minuti con un cretino sia a sua volta un cretino, per cui non sono mai riuscito a tessere quella rete di relazioni utili a raggiungere la notorietà minima necessaria e sufficiente per vivere di musica. Il fatto poi che la vivacità intellettuale e la curiosità stiano rarefacendosi, insidiate dal bombardamento massiccio del tuttoservito/tuttogiàpensato che risparmia ai più la fatica devastante dell'ascoltare, rende abbastanza impervia la via della comunicazione per chi non si allinea. Se a questo aggiungi che mediamente l’informazione è a totale disposizione dei soliti noti, capisci quanto poco fossi interessato a incidere un quinto disco: ho sentito le mie canzoni soffrire dell’essere ostaggio di un CD a causa della mia intemperanza e ho pensato che dovessero restarne fuori. Poi, come dicevo, il team che lavora con me ha insistito per continuare la storia, prescindendo dalla mia nausea. Ed eccoci qui.

Hai citato De André e Guccini: non a caso, direi, visto che sono un po' i tuoi due numi tutelari. Nella Staffetta, in particolare, il tono di alcuni brani ricorda il primo, mentre il secondo entra fra le righe dell'episodio in fondo più lieve del disco, L'indomani, con quella domenica più volte evocata che non può non far tornare alla mente la famosa "domenica in settembre" di Eskimo.
Certo: i numi, come li chiami tu, sono quelli. Di De André ho sempre apprezzato la  capacità di raccontare con crudezza l’emozione, e ho voluto scrivere per esempio Ricordi di figlio per raccontare senza indugiare in fronzoli linguistici la malinconia e il rimpianto per il non detto, cercando di mantenere un’atmosfera musicale scarna, affidandola alla sola chitarra di Antonello D’Urso. Invece L’indomani è la canzone della speranza, della voglia di soprassedere senza dimenticare, la consapevolezza che per superare il dramma occorre anche la capacità di lasciare che la stanchezza per il vissuto lasci spazio alla leggerezza: quando le lacrime finiscono, occorre trovare posto per un sorriso. Il legame con la “domenica in settembre” di cui dicevi c’è, e apprezzo che tu l’abbia colto: è la domenica del raccolto, della maturazione del vissuto, il giorno in cui si è compiuto quello che doveva compiersi (creazione/destrutturazione) e nel riposarsi si concedono spiragli al possibile. Ho cercato di aggiungere la sollecitazione del proposito di tenere alta la guardia, pur nella voglia impellente di alleggerire il carico esistenziale di vite segnate. Un appello agli “uomini di buona volontà”, in fondo.

Altri eventuali rimandi, per finire?
Il Leonard Cohen capace di esplorare il sentire, il suo modo di raccontare la sofferenza. Ho pensato ad Hallelujah, scrivendo Sobibor.

(Foto di Patrizia Muzzi)


 

 


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