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  di Annalisa Belluco  ‘Canzoni & Parole’ il festival della canzone d’autore italiana organizzato dall’Associazione Musica Italiana Paris che ha esordito nel 2022 è pronto a riaccendere le luci della terza ...

Casa del Vento

Aspettando Patti Smith

Se si presentassero con il nome originario della band, Teach na Gaothe, probabilmente “rischierebbero” di essere scambiati per un gruppo di tosti irlandesi alle prese con sonorità ispide e fluenti, decise ed immediate. Dato che, invece, si presentano come Casa del vento sono percepiti esattamente per quello che sono: una band fortemente radicata in un suono che varia dal punk al folk, senza nessuna contraddizione musicale e con le idee ben chiare circa le modalità attraverso cui manifestare la propria arte, le idee da veicolare, i valori da condividere attraverso la musica, le liriche, i dischi, il palco. E non è una caso che sia stata un’artista straniera come Patti Smith a rendere manifesto (ai grandi numeri) il valore della “ventennale” band di Arezzo perchè in Italia siamo quasi sempre occupati a guardare il dito senza scoprire la luna… Anche di questa “stranezza” abbiamo parlato con Luca Lanzi, cantante e tra i fondatori del gruppo…       

 

 

L’incontro con Patti Smith credo sia fondamentale per la vostra carriera: sia per un incremento di visibilità che, anche, come riconoscimento della bontà del vostro lavoro da parte di un’artista straordinaria. Che cosa ne pensate, dal punto di vista artistico ed umano, di questa esperienza?

 

Quando lei ci ha fatto complimenti, ci ha chiesto i nostri album, ci ha contattato via mail dopo tre giorni, e dopo tre settimane ci ha raggiunto ad Arezzo per suonare e registrare con lei, lascio a voi tutti immaginare l’emozione. E soprattutto la carezza che ha rappresentato, dopo l’indifferenza di certi ambienti giornalistici e musicali, e quella dei maggiori organizzatori di festival nostrani.

È come se tutto venisse azzerato. C’è voluta Patti Smith, dieci minuti di emozione nell’ascoltarci per lasciarsi andare. Dieci dischi invece non sono bastati: fa davvero sorridere che mai nessuno si fermi ad ascoltare i suoni, le armonie, la forza della comunicazione che Casa del Vento propone, e aggiungo che è ormai noioso sentirsi attaccare addosso delle etichette.

 

Il vostro percorso è senza dubbio legato a tematiche forti, a un’espressività che non ammette tentennamenti, alla necessità di prendere posizione al fianco di coloro che non hanno voce oppure ne hanno poca. Da cosa nasce questo vostro impegno e il desiderio di parlare con la voce di chi non ha voce, in un momento certamente non propizio per chi sta sempre “dalla parte del torto”? 

 

Forse perché conduciamo vite normali, abbiamo vissuto la precarietà, temiamo per i nostri figli; abbiamo dei lavori normali, ma questo non ci fa sentire dei dilettanti, credo che i nostri lavori, piacciano o no, siano molto professionali. Poi siamo figli di operai, i miei genitori hanno fatto la quinta elementare, hanno vissuto il dolore della guerra (mio padre ha perso il padre fucilato dai nazisti), stiamo da una parte e non siamo più disposti a sentire che ciò che diciamo sia solo facile retorica.

 

L’idea di un album fondato sulle tematiche del lavoro e sull’articolo 1 della Costituzione è davvero interessante ed originale. Da cosa (o come) è nata questa idea e come è stato accolto l’album, sia nei concerti che nelle vendite?

 

Sentivamo l’urgenza di denunciare le morti sul lavoro, la disoccupazione e la mancanza di prospettive per i giovani, tracciando anche una linea a ritroso nella memoria, per ricordare a chi ascolta le nostre canzoni che i diritti che i nostri padri o nonni avevano conquistato con la lotta ed il sudore, stanno per essere limitati moltissimo. Se vogliamo fare un esempio: quale ricatto si sta compiendo con i lavoratori Fiat di Pomigliano, imponendo “ordini” secondo cui non puoi nemmeno andare a pisciare o peggio, avere diritto di sciopero?

 

 

 

Voi, I Gang, Yo Yo Mundi, Cisco, I Modena, Les Anarchistes, Tetes de bois ed altri che non menziono per ragioni di spazio (o perché ristretti in ambiti locali o perché storici e scontati, nel senso migliore del termine, come Paolo Pietrangeli), siete gli “ultimi dei mohicani” nell’ambito della canzone “militante” o, perlomeno, della canzone che cerca temi intensi per esprimere bisogni di giustizia e libertà. Vi ci ritrovate in questa compagnia e perché la “grande famiglia” che negli anni ’90 cercava di leggere la realtà si è dispersa?

 

Onestamente, non credo si possano restringere questi gruppi ad una unica e stessa categoria. Credo che ognuno di loro abbia la propria particolarità, tanto che, sembrerà strano, a parte Cisco e Modena City Ramblers (per il percorso fatto assieme e l’amicizia che ci lega), non conosco granchè del lavoro degli altri gruppi che menzionavi, e sicuramente loro non conosceranno a fondo la nostra opera. Certamente ci accomuna il desiderio di esprimere dei contenuti sociali e provo per loro un sentimento di vicinanza e di rispetto. Credo anche che noi tutti dovremmo stare più uniti, ragionare collettivamente, sostenerci di più, dare stimolo alle reciproche idee che portiamo avanti, proprio perché veniamo tenuti ai margini. 

 

Redemption song è la canzone “anomala”, perché “straniera”, di “Articolo Uno”. Come mai avete deciso di inserirla nell’album e quanto Joe Strummer ed i Clash sono stati importanti per la vostra scelta di diventare musicisti?

 

Redemption song” è una canzone di Bob Marley, contro gli schemi mentali ed i pregiudizi. Quindi, relativamente all’oggi, è un brano contro le schiavitù mentali e l’arroganza dei benpensanti, contro i razzismi. E’ possibile che in Italia, chi invoca libertà, sia contro le unioni omosessuali, sia razzista, sia antisindacale? Quindi “Redemption song” quale grido di liberazione da tutto questo. Joe Strummer ne fece anch’egli una cover, lui e i Clash sono stati importanti nel periodo della composizione di “Genova chiama” dato che venivamo da un periodo di concerti con Cisco nei quali proponevamo “London calling”. Ma lui ed i Clash, non sono stati i più preponderanti tra le nostre preferenze, nel senso strettamente musicale. In un certo modo abbiamo preferito il punk sui generis dei “ Pogues” o dei “Les negresses verte”.

 

Oltre a Joe Strummer c’è un altro “intruso” famoso nella vostra discografia: De Andrè del quale avete rifatto “La canzone del Maggio”. Tributo all’uomo, al tema dell’album di riferimento, al periodo storico del Maggio francese o…?

 

Tributo a lui, che non a caso è genovese, perché in quel momento non trovavamo parole migliori per denunciare l’ipocrisia dei conservatori e perché volevamo descrivere ancora più marcatamente i movimenti che da Genova 2001 si stavano delineando.

 

Cosa ritenete sia importante fare, come artisti e come cittadini, per evitare di andare “sempre in fuorigioco” e per “trasformare la difesa in resistenza”?

 

Dare il buon esempio, sentiamo l’obbligo di trasmettere delle cose giuste. C’è un motto che sintetizza l’opera di Don Lorenzo Milani, che io, pur non essendo credente, condivido in pieno ed è “I care” cioè “Mi importa, mi interessa”, ecco a noi interessa essere antirazzisti, per i diritti di tutti, per l’onestà e la legalità, per la democrazia.

 

Nei vostri album ci sono sempre presenze di amici che condividono percorsi e discorsi. Quale il motivo per cui cercate sempre una spalla, una collaborazione con altri musicisti?

 

A volte giusto per arricchire i nostri lavori e renderli più incisivi ed emozionanti, a volte per dimostrare al mondo della musica che noi siamo all’altezza di suonare con David Rhodes o cantare con Ginevra Di Marco.

 

Siete partiti da sonorità folk Irish (iniziando con il nome del gruppo, Teach Na Gaothe, scritto in gaelico) e, nonostante i temi “forti” trattati avete cercato di mantenere una linea musicale abbastanza omogenea anche dal punto di vista strumentale. E’ una ragione intrinseca alle vostre radici musicali, alle vostre esperienza di partenza oppure ritenete che le vostre liriche e le vostre “ragioni” passino meglio con il mantenimento di sonorità folk?

 

Se si ascolta bene non siamo solo folk, diamo chiavi di lettura diverse, mi vengono in mente brani come “7”, un pezzo di rock elettrico o “Articolo uno” dove ci siamo cimentati a stravolgere il classico suoni delle chitarre acustiche “smanettando” sul computer. Poi, certamente, ci sono liriche che hanno bisogno di violino, fisa, ma non sono solo le sonorità che fanno il genere, a volte sono le armonie e le melodie di un pezzo. Mi vengono in mente i Nirvana: non è che quando usarono le chitarre acustiche nel loro disco unplugged potevano esser considerati un gruppo folk. Così noi, se si ascolta “Dal cielo”, ci sono gli strumenti acustici, ma non è un pezzo folk.

 

 Molte delle vostre liriche, a leggerle dopo averle ascoltate, ricordano passaggi alla Woody Guhtrie. E' una mia impressione oppure il grande menestrello popolare ha colpito anche la vostra immaginazione?

 

Certo, qualcosa di sicuro. Una delle prime canzoni popolari che imparai da adolescente fu “Hobos Lullabye” di Woody Guhtrie.

 

Posso chiedervi il titolo di cinque album che vi hanno profondamente influenzato nella scelta di essere musicisti? 

 

Harvest” di Neil Young, “Closing time” di Tom Waits, “Room to roam” dei Waterboys, “Sweet baby James” di James Taylor,  “If I should fall with grace with god” dei Pogues, ed anche “Murder ballads” di Nick Cave.

 

 

[Il 12 settembre La Casa del Vento proporrà insieme a Patti Smith il concerto-evento Seeds in the Wind alla Triennale Bovisa di Milano, live show all’interno del festival MITO legato alla mostra It's Not Only Rock 'n' Roll, Baby! ]

 


 

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