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Convegno "Chi ha paura della musica?"

L’evento più importante per quello che riguarda gli stand fieristici del recente Medimex di Bari è stato sicuramente il convegno “Chi ha paura della musica?”, che si è tenuto nel pomeriggio di sabato 26 novembre. Al tavolo Franco Battiato, Daniele Silvestri, Caparezza, Pierpaolo Capovilla del Teatro degli Orrori, Tommaso Colliva dei Calibro 35 e Vasco Brondi. L’incontro quindi ha abbracciato la storia musicale italiana dagli anni Sessanta a oggi, sostanzialmente per approfondire l’argomento principe del Medimex 2011: la musica come lavoro e i vari corollari della sua dignità culturale. 

Come ci si può immaginare, visto l’enorme mutamento di scenari intercorso soprattutto dalla fine degli anni Novanta in poi, le testimonianze sono state molto diverse: di base si cercava di capire in che modo il mondo della canzone, o più in generale della popular music, possa arrivare al pubblico oggi, facendo sì che si possano creare dei presupposti per farne una professione.

Per questo è chiaro che, per esempio, le parole di Battiato saranno sembrate precisamente opposte a quelle di Vasco Brondi. Prendo questi due artisti solo per esemplificare: da una parte Battiato, che ha iniziato quando c’era qualcosa da vendere in un unico modo, che ha potuto permettersi di «scegliere di iniziare a vendere, finendola con le sperimentazioni»; un tempo l’intero sistema di valutazione artistica era imperniato sulla forma: saper usare o no certi elementi artistici. Dall’altra parte Brondi, che non può fare a meno di sperimentare: non nella forma – che è ferma e aderente al linguaggio immediato, al linguaggio dell’oggi, perché non c’è più un canale da sfruttare e si deve fare a meno dei media, fino a ‘farsi oggi’, precario musicalmente e ‘metallico’ nell’indirizzare il suono (parole e musica) – ma nella scarnificazione delle pretese linguistiche: Brondi non appare il più bravo nell’usare un linguaggio, Brondi è il linguaggio che usa. C’entra poco qui, ma credo che questo sia precisamente la differenza tra Brondi e Dente, troppo spesso accostati in maniera del tutto superficiale: Dente usa il linguaggio, sul linguaggio punta, punta sulla forma – anche se poi il tutto spesso si risolve nel violentare apparentemente i modi di dire del linguaggio stereotipato, visto come il Male – e rimane precisamente innocuo e cortese.

Sarò pedante, ma quanto scritto mi serve per far capire a cosa si è assistito in questo convegno: artisti che coprono tutto l’arco della storia della canzone e, più precisamente, il rapporto tra l’arte della canzone e il medium che lo veicola, lo fa conoscere e ne permette la fruizione. È troppo breve qui lo spazio per parlare delle cose interessanti emerse, a mio parere soprattutto nelle parole di Pierpaolo Capovilla. Su un punto voglio però soffermarmi: il rapporto tra la musica e il medium principe del postmoderno: la televisione.

Verso la fine del convegno sostanzialmente c’è stato un attacco abbastanza generalizzato all’intervento di Luca de Gennaro, direttore artistico di Mtv. De Gennaro ha detto sostanzialmente che la musica in tv non funziona, non fa ascolti. Io mi sento di andare oltre – oltre quanto detto da de Gennaro, che peraltro è un dato inconfutabile –: la musica non è per la tv e non dovrebbe mai andarci. L’espressione sonora non dovrebbe mai cedere il passo a quella visiva.

Siccome quando si parla di questi argomenti si finisce sempre per fare discorsi pedagogici, e per esempio Silvestri durante il convegno ha parlato del fatto che la Rai dovrebbe educare i telespettatori, c’è da dire che guardare la musica, il cantante che canta, attraverso quell’amplificatore di dipendenza iconica che è la televisione, impone un irrimediabile rapporto gerarchico tra il visto e il sentito, che non fa altro che lastricare la strada che porta alla morte irrimediabile della musica: dell’idea della musica come linguaggio autonomo.

E allora il problema è proprio questo, irrisolto anche da questo convegno: oggi in Italia se qualcosa non va in tv praticamente non esiste. Cosa fare quindi?

 

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