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Il Pan del Diavolo

Terremoto d’un Diavolo

Un folk n’ roll “schizofrenico”, in cui sonorità puramente acustiche si fanno gravide dello spirito iconoclasta del punk e della virulenza del noise. Un carnevale insonne di personaggi grotteschi, in cui ogni tratto è stravolto da una deformazione caricaturale, eppure lucidamente indagato con l’arma lieve e tagliente di un sorriso straniato. Canzoni ad orologeria sul punto di liberare un sottobosco “infernale” di voci e figure che tutti forse conoscono, perché emergono non solo dalle mille botole del quotidiano vissuto, ma anche dalla selva rumorosa e disordinata dell’inconscio, a cui pulsioni e visioni attingono. Questo è la musica del duo palermitano composto da Pietro Alessandro Alosi (voce, chitarra e grancassa) e Gianluca Bartolo (chitarra 12 corde), alias il Pan del Diavolo, e del loro album d’esordio, Sono all’osso, 12 tracce (compreso un cameo degli Zen Circus) pubblicate dall’etichetta Tempesta Dischi, dopo un ep uscito per 800A Records/Malintenti Dischi. Il loro è progetto eterodosso rispetto a qualunque ortodossia di genere e di tradizione musicale, che tende l’orecchio agli urlatori e a Fred Buscaglione, a Ghigo Agosti e a Bugo, ai Cramps e a Neil Young. Quello del Pan del Diavolo è un autentico terremoto rispetto ai luoghi comuni sulla dimensione acustica, che in questo caso non è blando sfondo sonoro del canto di un menestrello, né terreno di virtuosismi arpeggiati e cullanti, ma anche solo con due chitarre acustiche e una grancassa sfonda le porte del banale, grazie alla lezione dissacrante del rockabilly (e psychobilly). E grazie a testi surreali, che vanno oltre qualunque buonismo obbligato, pseudo-romantico, ma anche oltre qualsiasi maledettismo di maniera, aprendo una finestra persino sul favolistico e sulla poesia dell’antiretorica.
Discutiamo del progetto “indiavolato” con il suo ideatore, Pietro Alessandro Alosi.
 

Partiamo da una domanda classica, sul nome Pan del Diavolo. Lo hai definito un alter-ego, come i personaggi della galleria di storie surreali che abita nella vostra musica. Ma l’espressione proviene da un proverbio («il pan del diavolo è sempre avvelenato») ed è stata anche il titolo di una canzone, nell’ep omonimo. L’adagio è uno di quegli inviti popolari alla rettitudine, che agitano lo spauracchio di conseguenze nefaste per i “viziosi”. E nel brano omonimo ci si fa beffe dei luoghi comuni, degli slogan da spot pubblicitario e dei modi di dire. Più che per “maledettismo”, questo nome è stato scelto con intenti ironici nei confronti delle distinzioni “manichee” tra bene e male? Questo “pan del diavolo” non lo si mangia un po’ tutti in fin dei conti, con buona pace del proverbio e della saggezza popolare?
Il pan del diavolo è una maledizione buffa. Il pan del diavolo è un Mr Hide di Stevenson che non sempre riesce a fare del male, un alter-ego che la notte si trasforma in lupo mannaro e fa baccano, ma che poi l’indomani deve fare i conti con i vicini per esempio. Forse bisogna essere fuori di testa per riconoscersi nei miei brani e non tutti lo sono: non lo è per esempio chi riesce a comprare un disco di Valerio Scanu, perché lì la materia grigia è venuta meno, non c’è via di scampo, ma per i restanti sognatori e ruspanti diavoli dell’oggi non dovrebbe essere troppo difficile immaginarsi per metà uomo e per metà cavallo come i protagonisti del nostro brano Centauro. Quindi sì lo mangiamo un po’ tutti in fin dei conti!
Il nome del progetto è emblematico, a mio avviso, perché vive di quella ambiguità beffarda che mi sembra presente nelle canzoni: ogni figura, ogni racconto sembra avere un doppio fondo, come se fosse folle e ad un tempo lucidamente dissacrante, realistico ma anche caricaturale. Ti ritrovi in questa impressione? Anche nella tua ironia, quanto vorresti essere preso sul serio?

Non avrei saputo descrivere meglio il progetto: follia lucida spicciola, ma che cerca di acchiappare il subconscio. Mi interessa molto essere preso sul serio per meglio penetrare nell’ascoltatore con le mie parole prima ancora della mia musica.
Quando si parla di un debutto discografico su full-lenght, a volte nell’immaginario collettivo si veicola l’idea sbagliata di musicisti senza passato, mentre solitamente ogni artista ha una sua storia (se non è ovviamente un “absolute beginner”, un vero e proprio esordiente). A quanto ho letto, prima di intraprendere la strada del Pan del Diavolo, tu hai avuto un’esperienza con il mondo dei produttori discografici non particolarmente felice. D’altronde nel brano dell’ep intitolato Stile Roberto il maledetto si fa anche riferimento a sciacalli pronti a speculare sugli “artisti emergenti”…Cosa hai imparato dal tuo passato musicale? Come ti ha cambiato?


Ho imparato che la musica non è un prodotto da scaffale, non è una macchina per essere famosi o per fare soldi: è piuttosto uno strumento fondamentale per sentirsi più vivi del semplice respirare o parlare, è uno stato di alterazione che ti avvicina al sogno, alla religione, alla meditazione. Non è un dentifricio da comprare, usare e poi gettare via. La discografia ha fatto diventare la musica di tutti un prodotto da autogrill.
Stile Roberto il maledetto brinda a chi vuole creare grandi talenti a tavolino e poi fallisce.

L’ep era uscito per la 800A Records/Malintenti Dischi, mentre l’album Sono all’osso è stato pubblicato dalla Tempesta Dischi: come è avvenuto l’incontro con questa etichetta, o meglio «collettivo di artisti», come a volte è definita?


Sì, innanzitutto è un collettivo di artisti, ma che stampa dischi e permette una grande visibilità a chi altrimenti non l’avrebbe. Davide Toffolo mi disse che la nostra scrittura è un «segno, un tratto distintivo »; era incuriosito da quello che sarebbe potuto succedere facendo un disco per Tempesta e così lui ed Enrico Molteni [n.d.a. entrambi, com’è noto, componenti dei Tre Allegri Ragazzi Morti] ci hanno dato fiducia: sembravamo loro il giusto input musicale per questi anni ’10 che erano ormai alle porte.
Ci siamo stretti la mano il 10 luglio 2009 ed il 15 gennaio 2010 il disco era già in distribuzione.

 

  

E avete sicuramente ben inaugurato il nuovo decennio, considerando l’accoglienza del disco. Nella vostra musica, ad ogni modo, sembrano convivere varie anime, quella più genuinamente folk, che discende da padri nobili come Bob Dylan e Neil Young, un’attitudine musicale più aggressiva (che attinge al punk, al noise, all’hardcore), ed infine un’anima cantautorale che guarda ad esempio forse a Rino Gaetano, ma risale persino indietro fino all’ironia swingata di un Fred Buscaglione. Questo bagaglio di identità sonore è però espresso totalmente in chiave acustica (tratto che è diventato sicuramente distintivo del progetto ed è anche causa probabilmente della sua fortuna): la dimensione acustica del Pan del Diavolo è un caso, una scelta, una fulminazione?

 

Abbiamo deciso di partire con una dimensione acustica per non riempire le orecchie dell’ascoltatore con mille suoni diversi, ma mettere le parole davanti a tutto: il folk è un vestito melodico e leggero, la cassa è il cuore che batte delle canzoni: quando accelera diventa quasi punk, ma non c’è la distorsione. Il testo e la voce la sostituiscono.

Le sonorità dell’album sono scarne e nude, ma anche per questo ruvide, spigolose, impetuose. Pensate di restare anche in futuro in questo alveo sonoro acustico?

 

Non credo: lavoreremo sicuramente con tanti altri strumenti. Per ora mi piace immaginare i fiati come prossimo tassello nella band, ma sto fantasticando: ancora non posso parlare di nuovi arrangiamenti. Nonostante le tante date, stiamo organizzando delle prove durante le quali ci saranno vari musicisti.

 

L’assenza di synths/tastiere asciuga i suoni delle canzoni e quindi può essere un incentivo ad un sound più rock e un antidoto contro un certo ammorbidimento o appiattimento dei suoni più tipico del pop? Questa veste sonora fa la differenza rispetto alla musica commerciale?

Le canzoni hanno assunto un suono caratteristico, poi il lavoro in studio è stato fatto affinché anche la loro incisione suonasse particolare, affinché fosse insomma il giusto sound per quello che succedeva nelle canzoni. Tutto questo nella musica commerciale succede in maniera diversa: si cerca un modello e poi lo si copia e lo si sfrutta, finché non se ne trova un altro.

Dato che la musica del Pan del Diavolo possiede anime differenti, quanto ti senti figlio del cantautorato italiano e cosa invece ti sentiresti invece di “rinnegare” nella sua tradizione, perché troppo distante da te?

Se intendi quanto mi sento figlio della canzone di De Andrè, la risposta è che probabilmente esistono eredi molto più onorevoli di me. Di Tenco invece mi ha rapito la sincerità e la semplicità, con cui si esprimeva nelle sue canzoni. Per il resto guardo indietro nel tempo o in altre direzioni. Io guardo il rock ‘n roll degli urlatori, non solo Celentano ai tempi di Stai lontana da me, ma anche il percorso e l’evoluzione musicale che ha fatto un personaggio come Ghigo Agosti nella sua carriera. Penso inoltre che cantanti come Fred Buscaglione siano dei personaggi enormi nella nostra storia musicale e culturale. Mi divido insomma.

La canzone Università non parla dell’istituzione universitaria, quanto piuttosto della sua “fauna” umana. Cosa significano i versi «Sì che c’ero alla festa e il mio gusto dell’orrore era un Cristo di pietà»?

La fauna universitaria si organizza con altra fauna universitaria, spesso anche di altre nazioni: si riuniscono e fanno delle cose chiamate feste Erasmus.

Il mondo universitario a volte diventa una specie di limbo fuori dalla vita reale, tra divertimento spinto e finti buoni propositi, una sorta di parcheggio/parco-giochi?

Forse sì! Ma io non vivo l’università e quindi non saprei con certezza. Se è vero quello che dici tu, l’università resta comunque un luogo pieno di giovani ed è quindi anche una casa di speranze per il futuro.
Non è colpa dei ragazzi se adesso è un parcheggio.

Già...ed in generale è un terreno di crescita, sia per i suoi aspetti goliardici che per quelli ovviamente formativi…Passiamo invece alle collaborazioni artistiche: unico ospite dell’album sono gli Zen Circus in Bomba nel cuore (con Ufo al basso acustico, Karim alla batteria minimale e Andrea Appino alla chitarra elettrica e voce). Ho letto che vi siete conosciuti al Rock Island Festival. Vi siete trovati bene con loro per questa collaborazione?

Gli Zen Circus sono una band eccezionale, stiamo già organizzando del nuovo materiale insieme. Sono degli amici e degli ottimi musicisti. Ci siamo trovati benissimo a lavorare con loro ed ultimamente abbiamo realizzato un video, fatto da Anna Paola Martin, del brano Bomba nel cuore, con le riprese fatte durante le registrazioni alle Officine Meccaniche.

E ora…con chi vi piacerebbe collaborare?

Ho in testa mille artisti, mi piacerebbe fare qualcos’altro con gli Zen, con Bugo, con tanti artisti della Tempesta, ma se comincio poi non mi fermo più potrei arrivare a dirti anche i Meat Puppets.

Intanto siete in tour: come racconteresti l’atmosfera e la dimensione “spettacolare” dei vostri concerti?

Una cavalcata selvaggia di un cavallo che ha perso il suo fantino.
 

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