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Nel nome di Francesco

Dedicato a Guccini il Tenco 2015

Cosa ne รจ venuto fuori? Le scelte, le interpretazioni, le testimonianze (anche del diretto interessato).

C’era una volta il Tenco che decollava immancabilmente sulle note di Lontano lontano... Quest’anno no: quest’anno tutto doveva ruotare attorno a Francesco Guccini, e così l’entrée è stata un’Auschwitz brillantemente riletta in combutta fra Vittorio De Scalzi e Mauro Pagani (con Edmondo Romano ai fiati).

Apriamo una parente, à la manière di Totò: al di là del diretto interessato, che ci ha tenuto a puntualizzare più volte “guardate che sono vivo, o se sono morto non me ne sono accorto”, il tributo in vita al pavanese più famoso del mondo sembra aver contrariato qualcuno. Onestamente non ci sentiamo di prendere troppo sul serio perplessità del genere: il Tenco ha tutto il diritto di celebrare un artista di tale statura (anche fisica, perché no?), che è asse fondante della canzone d’autore italiana, al Tenco ha dato (e dal Tenco ha ricevuto) tanto, ha smesso di cantare, e chi più ne ha più ne metta. Diritto sacrosanto, quindi (del resto lo si era già fatto, con Virgilio Savona e Sergio Endrigo, per esempio), che oltre tutto ha avuto il non trascurabile merito di riportare un po’ di attenzione (e il pubblico delle grandi occasioni) su una realtà snobbata con sin troppo agio, negli ultimi (neppure pochi) anni. Chiusa parente (sempre per dirla col Principe De Curtis).

Detto ciò, incamminiamo questa nostra perlustrazione sul pianeta Guccini in magioni tenchiane in tre sottorivoli. I primi due riguardano, da angolazioni diverse, lo stesso tema: gli scampoli di repertorio (leggi, più terra terra, le canzoni) selezionati ed eseguiti dagli artisti presenti al Tenco 2015. Partiamo dal cosa per approdare al come. Escludendo La genesi riveduta e (s)corretta da quelli dell’Ora Canonica (alias la sciagurata ditta Azio & Bessone), venticinque sono stati i brani vergati in mezzo secolo di onorata carriera dal “modenese volgare” riascoltati in quel di Sanremo. Divisi per album, cinque dal primo, “Folk Beat n.1”, compresi quelli scritti per i Nomadi e colà assenti (nello specifico Dio è morto e Noi non ci saremo), quattro da “Radici” e tre da “Via Paolo Fabbri 43” (che di brani ne contemplava solo sei) e “D’amore di morte e di altre sciocchezze”. E qui cade la prima ghianda (leggi sorpresa), perché quest’ultimo album, pur degnissimo, non ci pare certo superiore a quello che è invece il più significativo prodotto del Guccini post-1980, vale a dire “Signora Bovary”, brani selezionati zero (qualche titolo come pro-memoria? Scirocco, che fu targa Tenco 1987, Keaton, la titletrack, Van Loon...), così come “Due anni dopo” (Per quando è tardi, Vedi cara, Giorno d’estate, L’ubriaco, La primavera di Praga, eccetera eccetera, qui).

Prima doverosa postilla: “Due anni dopo”, inizio 1970, all’indomani dei fulgori del periodo Nomadi/Equipe (epici ma non sempre a fuoco come già a partire dall’album in oggetto), è il primo lavoro del Guccini maturo. In divenire, ma già con tutte le sue carte sul tavolo: il tempo andato, la dicotomia città/campagna, la noia che attanaglia e seduce, il mito e l’eros, eccetera eccetera (repetita juvant). Nello stesso anno arriva un secondo lavoro, “L’isola non trovata”, da cui i tenchiani “collezione” 2015 hanno attinto un solo pezzo, fascinoso ma neppure tra i suoi vertici. E comunque l’hanno eseguito i musici di Guccini (su cui torneremo). Eppure il disco contiene almeno due capolavori, Il frate e Un altro giorno è andato. Vabbé, de gustibus: ogni scelta va comunque rispettata.

Proseguiamo: alternativamente una o due presenze riguardano tutti gli altri album, escluso “Parnassius Guccinii” (curioso: il suo unico ad aver vinto la targa Tenco...) e i due degli anni Duemila che precedono “L’ultima Thule”. Ciò significa che del Guccini del terzo millennio sopravvive un unico brano, anche qui neppure tra i migliori, Gli artisti, riletto – e così entriamo nel secondo dei nostri tre rivoli – da Pacifico, presenza impalpabile quanto la canzone (sua e di Samuele Bersani) che la giuria – bontà sua – ha ritenuto la migliore dell’anno, sia pure ex-æquo. E qui, prima di proseguire, sarà utile un’altra postilla: le canzoni eseguite sono parse regolarmente più lunghe che non nelle versioni originali. Qualcuno ha sussurrato: “Guccini è prolisso”. Le cose non stanno proprio così, almeno fino alla penultima stagione: Guccini, lo sanno anche i muri, privilegia i contenuti testuali a quelli musicali. Nei primi si distingue, nei secondi meno. Ha molte cose da dire e già era un narratore (più che poeta) da cantautore. I suoi testi sono lunghi, talora chilometrici, e cantati da altri, meno incalzanti e che magari azzardano qualche intermezzo (o prologo, o coda) strumentale, lo sembrano ancora di più. Così Cristina Donà, per esempio, ha optato per un estratto da Stelle (e qui entreremmo nel ginepraio delle proposte quanto meno bizzarre, ma, ripetiamo, ogni scelta va rispettata). Prima di procedere oltre, ci limitiamo semplicemente a notare che, al di là dei titoli già fatti, sono rimasti fuori autentici pezzi da novanta come Piccola città, Canzone per Piero, Canzone di notte n. 2, Amerigo, Bologna, e altro ancora.

In un forzatamente rapido excursus di quello che invece c’era, segnaliamo la notevole versione del Pensionato offerta da John De Leo, che come ogni artista che si rispetti (se inventivo e avido di ricerca ancor più) ha diviso i pareri, così come, per analoghi motivi, Giovanni Truppi (per chi scrive la vera scoperta di quest’ultimo Tenco) con la sua scheletrica (voce, chitarra, e lui pure un po’ emaciato...) Gli amici e pure Mauro Ermanno Giovanardi con un Dio è morto nei cui interstizi s’inseriva il tema di Je t’aime moi non plus, icone, l’uno e l’altro brano, di un’epoca, i tardi anni Sessanta, in cui – su registri diversi – hanno gettato non poco scompiglio (e ci piace credere che il motivo dell’inserto fosse quello, anche se ciò che conta è comunque il risultato, molto suggestivo).

Proseguendo, Roberto Vecchioni, ridisceso in quel di Sanremo dove mancava da più anni dal Tenco che non da quell’altro festival, che nel frattempo ha pure vinto, ha optato per dire, anziché cantare, Bisanzio, valorizzandone il peso letterario (un testo con geniali agganci storici che certo il professore milanese sottrarrebbe volentieri al collega tosco-emiliano), anche per evitarne la chilometricità (in cantato i tempi inevitabilmente si allungano, e così, rifacendoci a quanto detto poc’anzi, magari mancano all’appello cose tipo La canzone dei dodici mesi, Via Paolo Fabbri 43, la stessa Canzone per Piero e altro ancora). Non ha saputo evitare, invece, qualche scivolata d’intonazione in Incontro (già intonata – allora sì – in una storica disfida col collega al Tenco ‘89), ma l’abbiamo perdonato, perché a quel punto già ci aveva regalato l’emozione più forte delle tre serate, il suo – magistrale – Ultimo spettacolo.

Molto bene Vanessa Tagliabue Yorke, che affiancata dall’Orchestra Sinfonica di Sanremo diretta da Vince Tempera ha riletto ben tre brani del Maetrone, distinguendosi in Radici e Cirano, laddove in Canzone quasi d’amore, capolavoro “sommerso” del Nostro, è parsa lievemente troppo impostata. La ragazza si farà, del resto (scherziamo: è già una splendida realtà), e – lei sì – ha messo tutti d’accordo (anche per uno scoppiettante dopo-spettacolo), così come un personaggio per altri versi criptico e “per niente facile” come Bobo Rondelli, uno di quei “maestri periferici” del nostro cantautorato che al Tenco dovrebbero venirci una anno sì e uno no: notevoli i brani suoi, e pure L’avvelenata, unica commissione ad hoc del direttore artistico del Tenco, Enrico De Angelis, perché – parole testuali – “Rondelli è uno che col turpiloquio ha una certa dimestichezza”.

Più che dignitosa Carmen Consoli nella sua Il vecchio e il bambino, come pure nei brani propri (con un curioso contrasto fra le schitarrate e i turgori del suo trio e la sua mise da signora vagamente d’antan), brioso – per non dire incontenibile – il canadese Bocephus King in una versione english di Autogrill, più o meno trascurabili gli altri, tranne – complessivamente – le Têtes de Bois (che sono maschietti ma hanno un nome femminile, volenti o nolenti; Canzone delle domande consuete, per loro) e soprattutto i musici di Guccini che si sono riuniti per il gran finale (come già detto ci torneremo), distinguendosi in particolare in una necessaria Canzone delle osterie di Fuoriporta, un’aromatica, opulenta Asia, una ruspante Statale 17 e l’immancabile Locomotiva per un finale veramente in gloria.

Detto della parte cantereccia, chiudiamo col terzo e conclusivo rivolo, quello più propriamente segnato dalla presenza, anche fisica, di Guccini: gli incontri presso la nuova sede del Club Tenco (ex-stazione di Sanremo), soprattutto pomeridiani. In quest’ambito, personaggi vari hanno parlato del loro rapporto con Guccini (lui generalmente presente, come detto), con due momenti più canonici di altri, nei pomeriggi di venerdì e sabato. Nel primo a parlare di Francesco sono stati – tutti insieme, in una variopinta ammucchiata – i musici poi esibitisi la sera dopo, vale a dire Deborah Kooperman, che ha rievocato il celebre “ancora” rimasto come incipit interruptus di Un altro giorno è andato e i vani tentativi di iniziare il Nostro a un decoroso (e all’epoca assolutamente pionieristico) fingerpicking, Juan Carlos Biondini, che si è fra l’altro difeso dall’accusa di farsi chiamare tuttora Flaco benché la bilancia dica altro (e che, più seriamente, è stato l’ottimo interprete vocale dei brani gucciniani nel corso del succitato gran finale), Jimmy Villotti, il più spassoso di tutti, un umorista nato, e ancora il già menzionato Vince Tempera, Roberto Manuzzi, che dopo anni di onorato sassofonismo si è visto ingaggiare come armonicista a bocca, Tiziano Barbieri e i reduci più freschi, Pier Mingotti e Ivano Zanotti.

Sabato spalti gremiti – e un sacco di gente rimasta fuori – perché di turno c’era il Maestrone in persona, che ha dialogato di letteratura più che di canzone (questo era il tema) con Antonio Silva e Guido De Maria (Premio Tenco 2015 all’operatore culturale), come sempre tra il serio e il faceto, ma senza lesinare qualche annotazione illuminante. Due passaggi in bella sintesi: “Pur avendo dato tutti gli esami, non mi sono mai laureato, perché fare canzoni mi ha portato altrove. Mia madre, che appartiene alla generazione di chi ti chiedeva “cosa fai nella vita?”, e se tu rispondevi “canto” ribatteva “sì, ma di lavoro?”, ha continuato a pensare che dovessi trovarmi un’occupazione seria anche quando a sentirmi venivano migliaia di persone. “Gente che non ha niente da fare”, chiosava. In tutta la vita è venuta una sola volta a un mio concerto, mio padre neanche quella. Sapeva che facevo questo mestiere e amen.” E più avanti: “Nella vita ho letto veramente di tutto. Sui libri lasciati dai villeggianti nell’altra casa di famiglia a Pavana che affittavamo d’estate, ho scoperto Arsenio Lupin, Fantomas, il Corsaro Nero, Sherlock Holmes... Erano dispense, con dei vuoti in mezzo, per cui magari lasciavi un personaggio in Africa alle prese con un rinoceronte inferocito e te lo ritrovavi in America Latina a lottare con un puma. Più avanti negli anni, scoprendo uno scrittore, ne leggevo tutta l’opera. Poi nei vari periodi della vita capita di amare di più uno che l’altro. Potrei citare Borges, Pavese, ma anche Gadda o lo stesso Camilleri, per quel miscuglio di italiano e dialetto, quella gergalità, che amo così tanto.”
E così sia.

Foto di Alberto Bazzurro


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