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Quante volte aprendo un giornale, che sia cartaceo oppure online, veniamo travolti da notizie di attualità, cronaca dai toni negativi che ci predispongono a un senso di smarrimento e depressione ...

Non voglio che Clara

Dei Cani

«Mi consola che nessuno, in questo secolo, ami qualcuno» (L’inconsolabile): la visione del mondo dipinta dall’atteso ritorno dei Non voglio che Clara, a quattro anni dall’album omonimo, è possentemente, eppure comunemente tragica. Lontani dai cerebralismi di altri più celebri colleghi, inclini alla dissimulazione di un sofisticato drammatico dietro lo schermo di melodie solari, i bellunesi propongono un intimismo semplice che sopporta e affresca la sofferenza più amara con la dignità elegante e discreta, ma anche l’enfasi delicata e generosa di slancio, sentimento e suoni di Sergio Endrigo, Gino Paoli o Umberto Bindi.

Questo approccio alla musica e alla vita non è assunto come scelta di emulazione, ma sembra un connotato naturale, impresso nel sangue e nel pentagramma. Non si tratta infatti dell’ennesima operazione vintage: il sound è assolutamente contemporaneo, soprattutto nelle malinconie elettroniche apportate anche dai Port-royal, ma affonda le sue radici nella drammaticità scarna e potente di un certo cantautorato il coraggio di immergere l’ascoltatore ancora oggi nella forza poderosa di suoni pieni e profondi, come quello di un pianoforte doloroso, o di effondere atmosfere intrise di un’amarezza crepuscolare, insieme quotidiana e straordinaria. Queste ultime sono intessute di archi gravi, organi cinematici, synths eterei, eppure acuminati come spilli, rare distorsioni aspre e notturne (Le guerre), chitarre meste e soffuse (La stagione buona), oppure voce unica di dolcezza accorata ed essenziale (v. Gli amori di gioventù, che riporta alla mente per soluzioni musicali il De Gregori degli anni ‘70).

I cani del titolo, oltre che un omaggio a Majakovskij, sono emblema degli inutili sacrifici di una vita avara di felicità (L’estate). Rispetto al romanticismo assoluto dei cantautori degli anni ’60 citati in apertura, che pure spande in questi brani pathos genuino, si è ormai preda piuttosto del disincanto bruciante de L’amore ai tempi del kerosene: questa canzone appare un capolavoro tragico che conduce nel rogo veloce che è il destino di sentimenti ormai transitori, abbandonati da chi presto rinuncia a costruire ed ancora ferita lancinante per chi invece fatica a dimenticare.

Il tempo della maturità infatti lascia sui compagni di strada (o che si credeva di vita) il marchio dell’irriconoscibilità e ci si ritrova diversi, estranei e lontani («e tu quassù tornasti più, quassù ti interessava più niente», L’estate) a domandare non più giustificazioni, ma solo risposte sincere per affrontare il futuro («non vedi che m’importa più che tu sia sincera su cosa ci dividerà», Il dramma della gelosia). Si piange infatti non solo lo smarrimento al capolinea dell’amore, ma soprattutto «una stagione della vita che è finita» (L’inconsolabile) e il seccarsi di speranze, ideali e sentimenti in giorni aridi, «vuoti» e «senza sconti» (Le guerre), eppure l’ottimismo ancora accende la possibilità della fiducia in un «tempo buono anche per ambire ad un tempo migliore» (La stagione buona, il brano più da chansonnier del disco, ma con coda post-rock da nodo in gola).

L’intensità dell’album, molto probabilmente uno dei più struggenti e preziosi del 2010, d’altronde si veste musicalmente anche di luminosità beat, seppur di chiarezza lacerante (Le guerre), e di tristezza leggera che consente alla mente di tradurre gli stati d’animo in spazi cinematografici: questo vale per L’inconsolabile, ma anche per il sapore visionariamente evocativo delle immagini de La mareggiata del ’66, brano di magniloquenza disperata e avvolgente che contrappone il bisogno di movimento vorticoso, fosse pur distruttivo di ogni sosta felice, alla fatica vana di chi si spende per dare e nel cercare di «farti restare». Il risultato di questi due movimenti, uno centrifugo e l’altro centripeto, è il bilancio di «quello che rimane». E auguriamo al quintetto di Fabio De Min di rimanere a lungo a ricostruire frantumi di gioia smarrita senza esasperazione di lacrime, ma con la linearità poderosa del racconto musicale.

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Giulio Ragno Favero
  • Anno: 2010
  • Durata: 38:59
  • Etichetta: Sleeping Star/Self

Elenco delle tracce

01. La mareggiata del ‘66

02. Il tuo carattere e il mio

03. Le guerre

04. Gli anni dell’università

05. Gli amori di gioventù

06. L’inconsolabile

07. L’estate

08. Il dramma della gelosia

09. L’amore al tempo del kerosene

10. Secoli

11. La stagione buona

Brani migliori

  1. La mareggiata del ’66
  2. L’amore al tempo del kerosene

Musicisti

Fabio De Min: voce, pianoforte, chitarra acustica Stefano Scariot: chitarra elettrica, chitarra acustica Matteo Visigalli: basso Igor de Paoli: batteria Marcello Batelli: chitarra Port-royal (Diana Tejera: voce; Mia Julia Schettini: voce; Laetitia Calcagno: artwork)