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Galli rossi e leoni russi

Ogni etichetta discografica, più o meno come ogni artista, dovrebbe avere (e difendere) una propria linea estetico-espressiva, non supina o derivativa. Nel jazz, per fortuna, ce ne sono diverse. Ne ”visitiamo” due, una italiana e una anglo-russa.

Ogni tanto questa rubrica si occupa di singole etichette. E’ quanto faremo anche oggi, centrando la nostra attenzione su due marchi con storie profondamente diverse (uno attivo da pochi anni, l’altro con un vissuto ultratrentennale), ma entrambi alimentati da una ferrea, salutare voglia di identità.

L’etichetta più giovane è El Gallo Rojo, che deve il suo nome sì all’omonimo pennuto ispanico, ma soprattutto, nello specifico, all’unione dei cognomi delle sue due anime, il bassista Danilo Gallo (foto in alto) e il batterista Zeno De Rossi. I due compaiono (specie Gallo) in una larga fetta dei dischi prodotti (ed ecco già qui un chiaro segno identitario) e quando si limitano al ruolo di produttori optano per lavori mai banali o supini, anzi fortemente contaminati (che non è una parolaccia).

La musica che trova posto nei dischi del Gallo Rojo è, di preferenza, quella che sarà il caso di etichettare (sì, lo sapete, a noi critici le etichette piacciono tanto…) dark jazz: una musica metropolitana, anticonsolatoria, a volte quasi crudele, oltre che – come si diceva – ampiamente contaminata, i cui più o meno potenziali referenti spaziano da Zappa a Waits, Zorn, magari il Frisell più luciferino (quel poco), certo blues urbano e certe propaggini della scena underground, certa musica da film e, al limite, certa drammaturgia d’avanguardia.

Un esempio eloquente di tale trafficato melting pot può esser colto nell’album It’s Nine O’Clock del quintetto The Humans, in cui figurano Gallo (su svariati attrezzi), due chitarre (strumento-totem del filone), batteriae voce, quella duttile/teatrale/apodittica diSilvia Donati. Ne vien fuori un lavoro dai toni spesso scuri, downtown, truculenti e ironici,con schegge rumoristiche e iterazioni anche insistite; un lavoro in cui, fra le altre (a partire ovviamente dai membri del gruppo), convivono le penne di Chico Buarque, Ignazio Buttitta e João Bosco, lungo un itinerario che tocca Australia, Spagna, Portogallo, USA, Italia, Polonia e Brasile.

Non meno paradigmatico del neobattezzato dark jazz è il gruppo di cui Danilo Gallo detiene la “maggioranza delle azioni” (del resto lo è anche Guano Padano, condiviso con De Rossi e Asso Stefana), Gallo & the Roosters, titolare in tempi recenti di due cd: The Exploding Note Theory (2009), che ospita, emblematicamente, un chitarrista psichedelico (qui anche al dobro) come Gary Lucas (foto sotto), e Everything Is Whatever (2011), con all’opera, invece, solo i Roosters-base, cioè Gallo, De Rossi, Achille Succi al clarinetto basso e Gerhard Gschloesslal trombone. Rispetto a The Humans, le atmosfere sono più dense, rotonde (a tratti persino danzanti), intrise di western (da Bonanza a…Jimmy Giuffre), volta a volta cinematografiche, oniriche e solenni. Il cd con Lucas, in particolare, è veramente notevole.

Ancora un po’ diversa, per chiudere con El Gallo Rojo, è l’aria che aleggia in 8888 del quartetto Falsopiano, doppio pianoforte (Santimone e Pacorig), il solito Gallo e batteria. Qui si alternano episodi prossimi al concertismo contemporaneo-colto (non mancano pagine di Schönberg e Ligeti) e cacofonie free, astrazione e corporeità, aliti minimali e magmi grumosi. Molti dei diciassette brani hanno il sapore del bozzetto (la metà non supera i due minuti e mezzo). Disco a tratti discontinuo, ma di sicuro valore.

Già che ci siamo, distogliamo un attimo l’occhio dallo specifico per dire brevemente di un quinto cd da poco edito in cui compare l’iperattivo Gallo. Si tratta di Every Where Is Here (Zerozerojazz) dell’Enzo Carpentieri Circular E-motion, col leader alla batteria, doppio basso (Gallo e Stefano Senni), il cornettista americano Rob Mazurek e la chitarra di Enrico Terragnoli (già in The Humans). Il sempre ottimo Mazurek (non di rado sordinato) e i due bassi sono gli assi attorno a cui ruota di preferenza la musica, articolata e sufficientemente avanzata, mai banale. Disco degno di nota.       

E passiamo ora all’altra etichetta oggetto del nostro focus, la Leo Records, fondata nel ’79 a Londra dall’esule russo Leo (cioè, appunto, Leone) Feigin. Ce ne siamo occupati ogni volta che ha edito lavori di artisti italiani, il che negli ultimi mesi è accaduto più del solito, per cui eccoci a questa zoomata ad hoc. Come e più del Gallo Rojo (non foss’altro che per anzianità di servizio) la Leo ha da sempre una sua specificità estetica, magari con gli anni frutto di progressivi “aggiustamenti”, ma sempre mossa dal gusto per il rischio (con tutte le insidie del caso), il non ovvio o consolatorio.

Fra le uscite delle tornate di giugno e agosto, ben cinque titoli ci riguardano da vicino. Procedendo per numero di elementi (nonché, casualmente, in ordine di uscita) partiamo dal trio che firma Underflow, cioè il pianista bolognese Nicola Guazzaloca, il sax-clarinettista inglese Tim Trevor-Biscoe e il violista serbo Szilàrd Mezei, impegnati per un’oretta (sei brani) in un’improvvisazione senza rete, servita comunque da un senso della forma palpabile, tra momenti quasi cameristici e sezioni più crude e nervose. Sempre in trio è Telegraph, frutto dell’interazione fra Giovanni Francesca, chitarra, Dario Miranda, basso, e Aldo Galasso, percussioni. Non disdegnando l’uso dell’elettronica, i tre confezionano un album decisamente più composto, non di rado incline a suggestioni rockeggianti (peraltro non senza tratti originali), una pensosità ora scura e ora più sognante che non manca qua e là di evocare atmosfere care a un Bill Frisell.

Due anche i dischi in quartetto. Il primo, Entrance, vede all’opera il Tran(ce)formation Quartet, largamente polistrumentale e in un brano, Addio Solo, ampliato a nonetto. Lo scheletro compositivo, qui, è ancor più nitido, nel segno di un descrittivismo che non disdegna inflessioni orientaleggianti e iterative. E c’è poi il quartetto guidato dal pianista Arrigo Cappelletti (foto sopra) e dal sassofonista Giulio Martino (più basso e batteria) che firma Misterious, tutto coperto da temi dell’illustre pianista comasco. Vi si respira un’aria tutto sommato alquanto classica, in rapporto alla “storia” di Cappelletti, più libero (e interessante) nei momenti in trio (tipo Uncertainty).

Chiudiamo con un album decisamente più composito ed eterodosso, Musica Lontana, che coinvolge, lungo sentieri appunto molto frastagliati, un sestetto (spesso smembrato) greco-pugliese in cui figurano fra gli altri il sassofonista-poeta Vittorino Curci, la vocalist Georgia Sylleou e il pianista Sakis Papadimitriou. Tra musica di varia provenienza e poesia detta, un profondo senso di ancestralità vi convive con turgori di marca free, non senza momenti più asciutti, quasi elegiaci, cameristici. Sul piano solistico, non si può non citare la prova del flautista Vincenzo Mastropirro.

 

 

 

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