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Quante volte aprendo un giornale, che sia cartaceo oppure online, veniamo travolti da notizie di attualità, cronaca dai toni negativi che ci predispongono a un senso di smarrimento e depressione ...

Michele Gazich e Federico Sirianni

Domani si vive e si muore

L’Italia della metà degli anni Cinquanta è una creatura mutante che s’è adattata a sopravvivere respirando la polvere delle macerie e a sentire nell’odore della cordite e del sangue secco una prova minima d’essere ancora vivi solo perché i sensi reagiscono e non giudicano più. l’Italia della metà degli anni Cinquanta ha preso la rincorsa e sta saltando il fossone dove scorre una maledetta tradizione di miseria fatta di terra da zappare e sassi da togliere dal campo e pane da portare a casa e mille figli che nascono e muoiono come fossero agnelli e conigli e carne che si mangia solo nel giorno di festa. L’Italia della metà degli anni Cinquanta è l’Italia che si piazza sui mercati internazionali con i suoi prodotti che sono competitivi perché alle fabbriche del Nord arrivano mani e braccia e sudore da tutta la penisola povera e stufa di morire, che a stufarsi di morire ci vuol poco quando la guerra è finita da poco.

L’Italia della metà degli anni Cinquanta è regina dell’economia mondiale, a dircelo oggi quasi non ci si crede, e la politica non è mai in sincrono, piuttosto si nutre della carcassa come fa ancora oggi e infatti quel guizzo di crescita potente i politici con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni lo chiamarono “Miracolo economico”. E cos’è il miracolo se non una cosa che accade oltre la spiegazione razionale, oltre la regola, in abbondanza di pani e pesci e acqua che si fa vino. Invece non c’era la meraviglia del miracolo dietro quel Boom ma mutui accesi all’esistenza e la maledizione di stringere i denti e passare dalle stagioni ai turni scanditi dalla macchina timbratrice. Siamo di certo diventati migliori con le case e le automobili e i frigoriferi e l’aspettativa di vita che s’è alzata e la scuola e le attese leggendo le riviste davanti agli ambulatori e la moda e i giovani e le casalinghe e i dischi e il quiz e sognare ancora. Sognare era davvero quello che faceva la differenza rispetto al presente (qui sotto una foto di repertorio di quel periodo). Ma abbiamo pagato un prezzo alto, troppo salato quel conto arrivato al tavolo quando ormai il miracolo era solo un corteo carnascialesco in cui si ritualizza la vita e si gestisce la colpa collettiva.

 

Ecco, in quell’aria di miracoli si muovevano giovanissimi a Torino dei personaggi che non sapevano stare nei panni loro, che sentivano un’inquietudine che era un topo che non smetteva di corrergli lungo la spina o un tarlo. Già, un tarlo. Avevano l’urgenza di trovare un linguaggio perché la convivenza con quello che già c’era non era stata felice e li avevano allontanati dall’associazionismo, dagli oratori, dalle congreghe, dalle redazioni dei giornaletti all’ombra delle curie: forse la risposta era già nel vento e l’aria si sentiva fresca addosso ad averci vent’anni e a camminare a primavera sotto i portici torinesi, quasi a scordarsi la madre di tutte le fabbriche che aveva dato un colore diverso da sempre all’alba e aveva piazzato una madonnina da venerare sopra al Monte dei Cappuccini perché il capitalismo è la religione più pregata al mondo. E in quell’urgenza di trovare linguaggi e parole nascono i Cantacronache, i padri certi della canzone d’autore in Italia, della canzone che veicola appoggiati agli accordi contenuti e storie. In ordine forse di apparizione e dimenticando senza colpa qualcuno arrivano Sergio Liberovici e Michele Straniero, Fausto Amodei e Margot, e poi ancora Emilio Jona, Italo Calvino, Gianni Rodari, Umberto Eco, Gianni De Maria. Vogliono fare canzoni che non siano la paccottiglia di consumo, all’epoca di dischi se ne vendevano a camionate perché non c’era la concorrenza di altri media che non fosse la carta stampata. Certo, c’erano la radio e la televisione e il cinema ma il disco te lo sentivi quando volevi tu e te lo portavi in giro con il mangiadischi e creavi una tua comunità di ascoltatori presi dalla santeria del consumo e pronti a dondolare le teste a tempo sentendo l’ultimo successo sanremese.

 

Fanno i loro dischi quelli dei Cantacronache, e i libri e gli spettacoli e sono una pentola di idee e contenuti che ancora sobbolle. Non hanno mai avuto in sorte d’essere conosciuti a quella figura mitica della narrazione dei pubblicitari ed affini che passa sotto la dicitura “il grande pubblico” e che vuol dire soldi. Non stanno nella memoria condivisa di questo Paese ed è un oltraggio alla storia e alla cultura. Emilio Jona ancora scrive e lucidamente si misura con il mondo oggi, Fausto Amodei non smette di mettere in musica e guardare con l’occhio suo disincantato in cui il sorriso taglia come lama di falcetto. E poi ci sono gli altri, che sono andati avanti, come c’era Michele Straniero. Un’anima irrequieta e mai placata la sua, così la immagini passando dai libri agli articoli di giornale e ancora dalle canzoni agli spettacoli teatrali. Con quel misurarsi costante, già nei titoli di tutti i suoi dischi, con la religione e la religiosità, con dio e con la natura umana e carnale delle cose. Michele Straniero muore in esordio di millennio, dopo essere stato investito su un viale torinese. Lascia un patrimonio ciclopico di cose scritte e anche solo immaginate. Lo lascia come hanno lasciato tutto i Cantacronache, che ancora aspettano che i loro archivi trovino una degna collocazione oltre gli scatoloni ammassati nelle stanze chiuse di qualche istituzione. E poi lascia un archivio domestico fatto di appunti e diari e pagine in cui annota le sue passeggiate. E poesie scritte in foglietti sparsi, che lui, Michele, era prima di tutto un poeta. Il nipote Giovanni Straniero custodisce quelle memorie per anni e un giorno si decide a proporle a Michele Gazich e Federico Sirianni (in alto in una foto di Flavio Dal Molin), due figli di quella razza spuria generata proprio dai Cantacronache, due portatori sani di musica e parole in forma di magia.

Nasce così Domani si vive e si muore, un disco in cui le poesie inedite di Straniero trovano nuova forza in guisa di canzoni. Gazich e Sirianni sono entrati in punta di piedi in quelle stanze dove si respira appunto una certa sospensione, un’inquietudine che si muove tra la timidezza delle emozioni espresse e la necessaria veemenza della passione civile. Tornano tutti i temi di Straniero in questo disco e vengono ridisegnati e cambiano casa e se, come scrive Borges, un romanzo diventa altro a ogni lettura, ora questo disco è perfettamente Michele Straniero e altro. E ci cantano in tanti e con diritto d’esserci in questo disco. In ordine alfabetico ci sono Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Maurizio Bettelli, Andrea Del Favero, Giovanna Famulari, Marco Tibu” Lamberti, Alessio Lega, Paolo Lucà, Giovanna Marini, Gian Gilberto Monti, Moni Ovadia, Giovanni Straniero.

Un disco delicato, fatto di rispetto e condivisione, suonato e cantato come si deve e come ci piace. E poi le voci di Michele e Federico che sono trama e ordito di un racconto delicato, sempre in punta di piedi, sempre ospiti di parole d'altri ma pronti a dar misura della propria forza valorizzatrice. Un lavoro pazzesco, (forse) inutile per questo tempo che consuma tutto in fretta, un lavoro di anima e voce. Tre voci a ben guardare, due dei protagonisti di questa avventura e la terza il violino, anche lui canta e anche lui prende i versi e li impasta all'emozione. Ad aprire e chiudere due brani originali scritti da Gazich e Sirianni con la forza compendiaria di mettere in due canzoni tutte le emozioni che misurarsi con quella figura gigantesca comporta. E lo vedi Michele Straniero, lo vedi proprio muoversi tra i viali nella città che produce e consuma, soprattutto le vite consuma.  L’etichetta è ‘Nota’ di Valter Colle, un antropologo, un editore, un cuoco che sa tenere insieme le anime sfuggenti di mille narratori con una pentola piena di gnocchi e una bottiglia di vino. C’è solo una cosa migliore di questo disco ed è il clima in cui è stato realizzato. Un disco che regala la certezza e di questi tempi non è poco perché “domani si vive e si muore”.

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In dettaglio

  • Anno: 2023
  • Durata: 58:05
  • Etichetta: Nota

Elenco delle tracce

01. Ho incontrato Michele Straniero

02. Lettera ai genitori

03. Le case, le strade, la gente

04. Domani si vive e si muore

05. L’altro

06. Da un cielo umano

07. Il corridoio del Nautilus

08. Marta

09. L’amore è sempre il punto

10. Danzacronaca

Brani migliori

Musicisti

Michele Gazich: voce, violino, viola;
Federico Sirianni: voce, chitarra, pianoforte;
Marco ‘Tibu’ Lamberti: chitarra, basso, banjo.             Ospiti:
Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Maurizio Bettelli, Andrea Del Favero, Giovanna Famulari, Marco ‘Tibu’ Lamberti, Alessio Lega, Paolo Lucà, Giovanna Marini, Gian Gilberto Monti, Moni Ovadia, Giovanni Straniero