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Stella Diana

Gemini

Fotografie al negativo, graffiti con linee di colori elettrici nel buio cavernoso o cosmico dei propri mondi interiori: ecco quello che i campani Stella Diana ci propongono, giunti al secondo album ufficiale, dopo vari demo autoprodotti dal 1999 ad oggi e alcuni assestamenti nella formazione.

Le nove tracce dell’Lp sono disegnate infatti su spessi muri di distorsioni noise, con sonorità che dai Marlene Kuntz conducono ai Deasonika. Le linee dei bassi compongono la forma di gorghi neri ed attraenti nell’intensa Shohet, mentre più spesso (ad esempio, ne Gli eterni  o in Mira) si presentano come magnetiche e minimali, nudamente oscure come nella tradizione anglofona del post-punk e della new-wave.

Il cantato di Dario Torre pare spesso voler accentuare la sua tenebrosità, quasi a voler riallacciarsi allo stile di Giovanni Lindo Ferretti, al cui corrosivo punk targato CCCP talvolta la band sembra pure guardare esclusivamente nel sound; la sua voce offre talvolta anche staffilate di acuti penetranti, come nel caso de Gli eterni. La linea vocale, ad ogni modo, appare volutamente dominata, in termini di volumi, da fitte chitarre aggressive e virulente, a volte intenzionalmente stridenti, in odore di space-rock.

Talora però i riff di chitarra si fanno più limpidi e baluginano come un tracciato maestoso e malinconico di stelle, specchio celeste e musicale in cui confrontare il dispiegarsi delle proprie inquietudini: è il caso delle strofe di Caulfield, il cui titolo pare ispirarsi al cognome dell’Holden di J. P. Salinger. Un post-punk che a volte si fa quasi pop-punk e quindi suona ritmicamente appena più chiaro è poi quello offerto da Paul Breitner, che sembra intitolarsi come il noto ex-calciatore tedesco, dichiaratamente di sinistra, autore del gol della bandiera contro l’Italia ai Mondiali del 1982; l’arrangiamento del brano riconduce comunque al di sotto della coltre ricca e fitta di distorsioni, seppure sia illuminato da un ritornello più luminoso che piacerebbe ad esempio agli Editors. Anche in Happy Song si respira un po’ di luce in più nel ritmo quasi surf-rock wilsoniano delle strofe, pur sempre accompagnato dalla cospicua dose di chitarre effettate.

In Ra l’intrecciarsi dei riff di chitarra, a cui corrisponde il pulsare dialogante del basso, descrive l’ossessività del bisogno dell’amata, finché il basso del co-fondatore della band Giacomo Salzano non dischiude un lungo momento strumentale, proiettando in un’aura cangiante e visionaria di chitarre siderali tra psichedelia, space e shoegaze. A quest’ultimo genere paiono riconducibili anche gli arpeggi colorati di un pizzico di malinconia di Bill Carson (nome di uno dei personaggi de Il buono, il brutto e il cattivo, ma anche del chitarrista californiano per cui Leo Fender disegnò la Stratocaster nei primi anni ’50): in questo caso anche le sonorità space-rock sembrano essere declinate in un intimismo struggente.

I testi, un po’ criptici, hanno la densità grumosa di uno sfogo, oppure distribuiscono frammenti di storie, di dialoghi reali o ideali che lasciano sedimentare stati d’animo di personaggi e vicende interiori.

Non si tratta di un album rivoluzionario o innovativo, ma può senz’altro risultare intrigante.

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In dettaglio

  • Anno: 2011
  • Durata: 35:50
  • Etichetta: Happy/Mopy Records/Audioglobe/Itunes

Elenco delle tracce

01. Shohet

02. Gli eterni

03. Mira

04. Kingdom Hospital

05. Caulfield

06. Paul Breitner

07. Ra

08. Happy Song

09. Bill Carson

Brani migliori

  1. Shohet
  2. Caulfield
  3. Bill Carson

Musicisti

Giacomo Salzano: basso Massimo Del Pezzo: batteria Raffaele Bocchetti: chitarre Dario Torre: voce, chitarra