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Canzoni&Parole - Festival di musica italiana ...

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Luca Carboni

Mica facile descrivere la malinconia.
Ché è come inciampare su un piede, ruotare appena il busto, scoprirsi le spalle. Mica facile affrontarla di petto, guardarla in faccia senza rimanere illesi. Ché è una prova di libertà, di autodeterminazione. Con la malinconia ci giochiamo un po’ tutti, ogni tanto.
È un ricordo vecchio oppure scorre ancora? Ti appartiene anche adesso oppure è tutto passato? Hai coraggio a voltarti indietro anche a costo di rimanere con una manciata di vento tra le mani?

“Consiste nel lontano, nel vago, nell’indefinito […] Se non desta alcuna rimembranza, non è poetica”. Del fascino dei ricordi e dei vissuti scriveva così il primo Leopardi. Per gli appassionati di musica, come noi, come voi, è imprescindibile far riferimento invece a Luca Carboni.

Di Luca Carboni potremmo dire che aveva raggiunto il grande pubblico con il suo quinto album “Carboni” (1992), o che si era fatto notare col suo primo disco “…intanto Dustin Hoffmann non sbaglia un film” (1984). Ma la verità è che già prima del suo esordio convinse un buon gruppetto (e che gruppetto!) con un po’ di fogli sparsi: infatti su consiglio del suo amico Ron, lasciò un blocco di testi alla storica Osteria da Vito, lì dove erano soliti incontrarsi i più grandi personaggi della Bologna musicale; proprio quei fogli, solo parole, senza musica, attirarono l’attenzione di Lucio Dalla e degli Stadio che lo contattarono per telefono, e fu così che la carriera di Luca Carboni prese forma.

 

Il terzo album intitolato “Luca Carboni” (1987) fu sicuramente quello che ha dimostrato come poteva evolvere lo stile intimista e attento del cantautore classe 1962: se nei primi due album si temeva che quel tipo di racconto potesse svanire di lì a breve, successivamente abbiamo assistito a dei lavori che resistono nel tempo proprio perché si adattano ad ogni epoca, ogni prospettiva. Dei classici ma sempre in mutamento, in quanto scritti da un artista coerente a cui non piace ripetersi.

La prima traccia del disco stordisce senza preavviso, un pugno allo stomaco per storia cantata, immaginario e equilibrio degli elementi sonori che verosimilmente qui sono anche visivi; tra partitelle con la maglia del Bologna, insegnanti senza luce, Silvia ed un vecchio amico che non alza più lo sguardo cercando calore in un ago. Fin dai primi lavori, compreso quest’album, Carboni prosegue nel suo delicatissimo racconto dei “piccoli” attraverso una cifra stilistica pregna di empatia e rispetto che esclude lo sguardo verticale, giudizioso e quindi contrapposto della società mettendo in discussione le ideologie più condivise.
Le spade di Luca, il sesso facile di Farfallina, la terra promessa ma mai avuta di Caro Gesù: nei brani si scava a fondo nelle domande, si danza intorno alle storie di tutti, ciascuno con le proprie esistenze tanto diverse quanto standard, perfette, da raccontare. E così un riquadro dopo l’altro, un po’ per sintonia un po’ per curiosità, ci sembra, se non di rivederci allo specchio, almeno di aver già visto quelle scene, di averle vissute, di aver sentito a volte quello stesso vento che sentono gli ultimi, di aver tradito anche solo per un po’ le statistiche ipocrite e di plastica. Come in Vieni a vivere con me (tra le prime canzoni a trattare il tema della convivenza pre-matrimoniale in maniera esplicita) in cui l’ecosistema dei gesti, dei profumi e il desiderio dei sensi tutti prevalgono sulle norme cattolicissime delle famiglie tradizionali.

È proprio questo il talento che evince qui: non perdere mai di vista il racconto, far esprimere i personaggi attraverso voce e musica. Nei brani Carboni si defila e lascia il palco alle storie, consegna penna e foglio agli stessi protagonisti. In Silvia lo sai il testo arranca, fatica a seguire il tempo, proprio come i passi bui di Luca; ne La voglia di vivere le tastiere brulicano nel petto nonostante tutt’intorno sia placido e tranquillo; persino gli autobus di notte, silenziosi e generosi, desiderano altre strade.

 

Luca Carboni è un album figlio degli anni Ottanta perché ne riflette la sperimentazione (flauti, sax, organi, persino percussioni latineggianti si incontrano e si integrano perfettamente) e lo è proprio per contrasto verso quei look imprescindibili, quei suoni metallici e glam, quella stessa ossessione per l’estetica che dominava quel periodo. Con questo album Carboni conferma i buoni propositi a livello autorale, e raggiunge quella consapevolezza che sarà determinante per esplorare nuovi stili e conoscere un pubblico eterogeneo ma ben definito (soprattutto con il boom di “Carboni” del 1992). La versatilità del cantautore bolognese si affinerà man mano con gli anni e con i vari collaboratori (Curreri, Malavasi, Ron, Pino Daniele, Jovanotti) raggiungendo di lì a poco il consenso nazionale, mutando stile e approccio, pur senza tradire quel suo immaginario intimista e malinconico.

Sorprendentemente, persino dopo 30 anni i suoi lavori si riveleranno dei manifesti lirici per gli autori delle ultimissime scene, con l’it-pop (o indie, per alcuni) a invadere le cuffie, gli schermi e i muri; a rivendicare l’importanza delle piccole cose che non sono piccole (e nemmeno cose), a raccontare pagine grigie con delicatezza e affetto, e a rincasare in quella parentesi opaca, sfumata e sicura della malinconia.
Sembra quasi la felicità.

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