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  di Annalisa Belluco  ‘Canzoni & Parole’ il festival della canzone d’autore italiana organizzato dall’Associazione Musica Italiana Paris che ha esordito nel 2022 è pronto a riaccendere le luci della terza ...

Quelli che il free (again)…

Un linguaggio ampiamente storicizzato ma che può offrire ancora soluzioni ardite (e magari spiazzare più di un jazzfan), fra libera improvvisazione e solide strutture

Jannacci sorrideva divertito allorché, qualche mese fa, avevamo intitolato ‘Quelli che il free…’ una puntata della nostra periodica perlustrazione attorno all’universo jazzistico nostrano, nel caso specifico di più spiccata vocazione sperimentale. Oggi torniamo alla carica, e lo rimettiamo in homepage, sperando nella sua rinnovata benevolenza nel momento in cui prendiamo nuovamente a prestito il titolo di uno dei suoi brani più noti (ovviamente Quelli che…), piegandolo alle nostre esigenze per una nuova panoramica in tema. Che avrà, su tutte, una particolarità: quella di passare senza tappe intermedie dalle formazioni più essenziali (numericamente) a quelle più generose.

Partiamo dunque da un duo, quello composto dal trombonista Sebi Tramontana (foto in alto) e dal violoncellista Luca Tilli, che in Down at the Docks (We Insist!) assemblano le sonorità dei loro due strumenti facendo il primo largo uso delle sordine, il secondo alternando l’archettato al pizzicato. Alterni anche i climi, ora giocati nel segno di un dialogare più fitto e brillante, ora più rilasciato e pensoso, e di fatto gli stessi esiti del disco, che non elude del tutto le insidie di un minimo di ripetitività (del resto pressoché fisiologica), ma si mantiene comunque su livelli globalmente più che apprezzabili.  

Un trio di ottime prospettive è poi quello che in Lost River (ECM) vede abbinati, sempre nel segno dell’improvvisazione totale, due dei più bei nomi del nostro jazz di ricerca quali l’altro trombonista Gianluca Petrella e il percussionista Michele Rabbia col chitarrista norvegese Eivind Aarset, tutti anche all’elettronica. Si parte benone, ma poi prende piede un clima fin troppo statico, monolitico, avaro di sbocchi, come sfuggente, poco concludente. Si indulge in un comodo massaggio con unguenti elettronici, finendo per impantanarsi. L’unico che dà segnali di ribellione è Petrella, ma i risultati sono modesti, il senso di inappagamento incontestabile.

Un altro trio (Blend 3), stavolta con un leader, il bassista Andrea Grossi (più sax alto e chitarra elettrica), confeziona poi Lubok (ancora We Insist!), dove per contro la mano autoriale del leader si coglie con agio (anche se non tutti i pezzi sono suoi, o solo suoi: ce n’è anche uno di Tim Berne). Il discorso è infatti decisamente più lineare, architettonicamente definito, e nel contempo vivace, affermativo (ovviamente non a senso unico), meno sfilacciato e dispersivo, con discrete doti di originalità pur lungo itinerari ormai serviti da una letteratura che abbraccia diversi decenni.

Terzo e ultimo trio quello che nel novembre 2018, in terra francese, ha inciso Live at L’Horloge (Amirani), ancora palleggiato su basi “democratiche” (cioè senza un leader dichiarato) fra la pianista giapponese Yoko Miura (autrice di tutti i brani, e quindi, se proprio vogliamo, leader in pectore), il percussionista francese Thierry Waziniak e il pavese Gianni Mimmo al sax soprano. Sulla live session aleggia l’ombra nitidissima di Steve Lacy, fin dai titoli dei brani (Drops, in numero di cinque, Fall, ecc.), fra nitore timbrico-dinamico e rugosità che s’insinuano qua e là sopra il tessuto improvvisativo (perché l’improvvisazione è ovviamente ben presente). Ottimo lavoro.

 

Un altro pontefice massimo del sax soprano (dopo Lacy), anche se nello specifico impegnato più che altro al tenore, è di certo l’inglese Evan Parker, che nel maggio 2018, durante la rassegna bolognese Angelica, è stato ospite di un Setola di Maiale Unit (foto sopra) volto a festeggiare il venticinquennale della benemerita label friulana (Setola di Maiale, appunto), particolarmente sensibile all’avanguardia o comunque alle musiche non di routine. E’ all’opera un ottetto (ecco il salto della quaglia cui accennavamo all’inizio), con nomi forti come Marco Colonna, Martin Mayes, Giorgio Pacorig e soprattutto quello Stefano Giust, nello specifico percussionista, che dell’etichetta è l’autentico deus ex-machina, ottetto dedito all’improvvisazione senza rete, con esiti peraltro piuttosto solidi, col tenore parkeriano e il clarinetto di Colonna in particolare spolvero (ma in mezzo a tutto il resto ci sono anche una voce e non poca elettronica). Ottimi momenti corali e individuali, ovviamente in mezzo a fasi più – per così dire – interlocutorie.

Un nonetto sufficientemente agguerrito è poi il protagonista di The Gift of Togetherness (Caligola) del Multikulti Ensemble diretto dal percussionista Cristiano Calcagnile nel nome (e nel ricordo) di Don Cherry e suoi correligionari. Ci sono musiche sue, di Ornette Coleman e Dewey Redman, oltre che dei membri dell’ensemble, con soluzioni sempre apprezzabili, un’ottima sinergia fra scrittura e improvvisazione e fra singoli e collettivo. Tante le figure di spicco del nuovo jazz italiano presenti in organico, fra cui Paolo Botti, il quale, lui pure alla testa di un nonetto e sempre per i tipi della Caligola, ha appena sfornato Lomax Lives!, nuovo volume intitolato al celebre etnomusicologo Alan Lomax e alle sue dissepolture. Il contenitore, qui, affonda le radici ben più indietro rispetto al lessico che informa tutti i cd di cui ci siamo appena occupati, anche se la componente improvvisativa ne tiene conto con una certa generosità. Anche qui i nomi importanti si sprecano e il livello del disco se ne giova largamente. Grande sapienza architettonica in entrambi i cd.

Foto di Margherita Caprilli (Setola di Maiale).

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